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Archive for the ‘Teatro’ Category

CALENDARIO DELLE ESIBIZIONI TEATRALI ANNO 2012/2013

Di seguito pubblichiamo il programma delle esibizioni finali degli allievi del

Centro di Orientamento ed Educazione Teatrale

 

PROGRAMMA

  • Teatroteca:

E’ PRONTO IN FAVOLA

Domenica 5 Maggio e Domenica 12 Maggio ore 19.30

(Ingresso gratuito con invito)

  • Scuola di teatro 1:

  “STUDIO TEATRALE

Sabato 11 Maggio ore 20.00:

(Ingresso gratuito con invito)

  • Scuola di teatro 2: 

  “TROIANE” di Euripide

Venerdì 17 Maggio e Sabato 18 Maggio ore 20.30

(Ingresso con contributo)

  • Corso Propedeutico:

NO PIGS 3° lezione

Domenica 19 Maggio ore 18.00 (prima replica); ore 20.00 (seconda replica)

(Ingresso con contributo)

Centro di Orientamento ed Educazione Teatrale del TEATRO DELLE MOLLICHE

Via Ruvo 32 – Corato (Ba) · T. 3384234106

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giornata-teatro-2011 (1)

GIORNATA MONDIALE DEL TEATRO

27 MARZO

Il Teatro delle Molliche festeggerà, come gli anni precedenti,  la GIORNATA MONDIALE DEL TEATRO, che sarà celebrata mercoledì 27 Marzo 2013.

Dalle ore 18,30 in poi il teatro sarà di tutti e aperto a tutti e si potrà accedere in qualsiasi momento, liberamente e gratuitamente, per condividere con gli altri questa giornata. Gli spazi teatrali potranno essere utilizzati da chiunque lo voglia, in maniera libera e spontanea, per qualsiasi tipo di performance dalla lettura di una pagina di un libro, alla declamazione di una poesia, dalla recita recita di un monologo di una scena, alla danza, a una esibizione musicale, e altro o anche partecipando da spettatori.

In seguito dalle ore 21,30 si festeggerà tutti insieme con un buffet fatto da ciò che ognuno vorrà o potrà preparare e condividere.

Siete tutti invitati presso il Teatro delle Molliche in via Ruvo 32, Corato (Ba).

 

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resistenze0129° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Barbara Cerrato e Maria Macri
su “Peppino mani dell’Angelo” di Michele Pagano
presentato da “Officina Teatro” di Caserta
                                  interpretato da Barbara Cerrato                                       e diretto da Michele Pagano

” “Quando lo spirito non collabora con le mani non c’è arte”, sostiene Leonardo Da Vinci. Le mani di Mimma avevano qualcosa di diverso. L’avevano capito i tanti che si affollavano ai vetri della finestra per osservarla. Tutta quella gente non si era mai vista. I bambini erano sempre più numerosi, accorrevano le donne che uscivano solo la domenica per andare a messa, processioni da pesi lontani. Per tutti era “miracolata”, per pochi è rimasto Peppino, Peppino mani dell’angelo. ”                      (dalla presentazione dell’autore) 

Maria: il testo è di Michele Pagano, il direttore artistico di Officina Teatro messo in scena sette anni fa per la prima volta, poi rimesso in scena, riallestito con Barbara dopo circa un anno di prova, per cercare di rendere meno difficili per il pubblico determinati argomenti trattati.

Barbara: prima dell’inizio dello spettacolo sapevo che c’erano giovani nel pubblico ed eravamo un po’ spaventate, però è andata bene. Se a loro è piaciuto penso sia una delle più grandi soddisfazioni.

Claudia: vorrei sapere qualcosa di più riguardo alla genesi di questo spettacolo, cioè come è nata l’idea.

Barbara: l’idea è nata come diceva Maria, sette anni fa e Michele Pagano il nostro direttore artistico ha scritto questo testo ed è stato messo in scena tempo fa. La messa in scena era totalmente diversa da questa! Io ho iniziato le prove, ho letto il testo e lo spettacolo è cresciuto insieme alle prove. Solitamente facciamo così: c’è di base un testo, dopodiché lo spettacolo cresce con le prove. Ho fatto uno studio molto approfondito su Peppino. All’inizio è stato un po’ difficile perché cercavo un barbiere per entrare nella testa di Peppino. A Caserta sono andata un po’ a chiedere in giro, e all’inizio erano un po’ sconvolti: vedere entrare una ragazza e chiedere di fare la barba! E un paio di loro mi ha detto “ma mi stai prendendo in giro?” Mi hanno mandato a quel paese. Dopodiché ho trovato gentilmente questo signore che mi ha seguita, mi ha insegnato a fare la barba, è venuto lui da me, sono andata io da lui al negozio, ho imparato e adesso so fare anche la barba. Infatti dico sempre: male che vada almeno faccio le barbe, mi apro un negozio di barbe. (ride)

Claudia: quindi è un personaggio fittizio?

Barbara: è frutto dell’immaginazione del nostro direttore artistico.

Barbara: dobbiamo tornare a casa, siamo di Caserta, ci mettiamo un po’. Tra l’altro oggi abbiamo trovato anche neve in strada, ghiaccio. Prima facciamo meglio è! Scusateci. Grazie.

 

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resistenze0128° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Marco Bianchini 
su “Anamnesi – Narrazioni paramediche” di Marco Bianchini
presentato da “Teatro della caduta” di Torino
interpretato e diretto da Marco Bianchini

 

“Lo spettatore assiste alla terribile battaglia con il pericolosissimo diplococco gram-negativo, alla genesi di tutte le malattie, alle avventure tragicomiche di un artista maledetto e di un ricoverato in terapia intensiva. Il registro del racconto cambia continuamente, passando dal drammatico al farsesco e dal parodistico al tragico. Uno spettacolo che diventa il pretesto per un discorso più ampio che indaga il rapporto dell’uomo con le malattie, il concetto di “guarigione”, i cambiamenti che le malattie provocano nella vita delle persone e il rapporto paziente-personale ospedaliero.” ( Dalla presentazione dell’autore)

Marco: faccio una domanda per prima io, a me stesso (magari una cosa che vi chiedevate voi): ma è vero che ti è successa questa cosa qua? Sì è vero. Altrimenti non avrei fatto uno spettacolo che parla della meningite. Se non fosse successa a me,  non mi sembrava il caso. Quindi è perfettamente autobiografico. E la seconda domanda che potrei farmi è (se lo sapevo prima che mi sarei fatto le domande da me, me le preparavo): la signora che interviene a un certo punto, anche lei esiste veramente? Sì, anche lei esiste veramente, ha anche nome e cognome, vi dirò solo il nome: si chiama Lea ed è una signora di Torino. (Imitando ironicamente la voce del personaggio) quella che parla così, ecco è una signora che esiste. Parla così ed è esattamente uguale così.

Marilena: complimenti innanzi tutto, e poi una domanda personale: in che modo questa esperienza ha cambiato la tua vita? Nelle ultime battute hai detto “ho cominciato ad apprezzare ogni singolo alito di vento, ogni singola cosa, la natura, quello che mi circonda”; volevo sapere a livello emotivo il tuo rapporto con la malattia. Mi è piaciuto molto questo tuo ironizzare, qualcosa che poi in realtà era abbastanza serio, cioè, non c’era nulla per cui sorridere, però sei riuscito ad affrontare comunque un argomento come la malattia. È un po’ lo spauracchio di tutti: la nostra paura più grande è quella di andare incontro a delle malattie, e soprattutto non saperlo, perché tu non lo sapevi finché non è scoppiato del tutto questo virus.

Marco: cosa è cambiato? La mia vita è divisa proprio in due parti: prima della meningite e dopo la meningite. Come è cambiata non te lo so dire molto bene perché… Allora, la meningite ti fa questa cosa: ti azzera proprio il cervello in un certo modo, per cui i ricordi di prima ci sono, non è che non ci sono, un po’ sono spariti, però non ho coscienza delle cose che mi sono dimenticato. È proprio come quando riformatti il computer: il computer è sempre lui, però delle cose non ci sono più, sono cambiate. Non so se è meglio prima o è meglio dopo. In realtà la chiave dello spettacolo è nelle ultime due frasi, che sono questo riferimento al paradiso perduto, fa capire che, insomma, non sono così contento di aver avuto la meningite: perché avrei dovuto essere contento? Non si può essere contenti di aver avuto una roba così! Preferivo non avercela, ma veramente avrei preferito.

Marilena: come hai reagito quando ti sei reso conto che parte dei tuoi ricordi, parte del tuo vissuto non era più tuo o meglio non lo ricordavi più?

Marco: uno va avanti, non puoi fare niente, cioè sei qua e vai avanti.

Marilena: hai poi voluto saperlo da altri, quello che avevi dimenticato, ti è stato riraccontato da altri?

Marco: alcune cose sì.

Marilena: è brutto? Io sono anche nostalgica, però perdere parte del vissuto è brutto.

Marco: siccome c’è questo baratro tra il prima e il dopo, io al prima non ci sono neanche tanto legato. C’è proprio tanta distanza tra il prima e il dopo, non che sia tanto legato al dopo, però…

Marilina: come se fossi rinato…

Marco: (esitando) si…non lo so…un po’ sì, perché devi ricominciare a imparare a fare un po’ tutta una serie di cose. Cinque giorni di coma non sono niente, però la gente che rimane in coma tanto tanto tanto tempo se ne va a riprendersi. Voi pensate quando dormite 10 ore di fila, uno si sveglia che ha un balordone, un po’ più di là che di qua. Pensa che 24 ore per 5 sono stato proprio da un’altra parte e questa cosa me la porto dietro, continuo a portarmela dietro e non me la tiro mai più, quindi un pezzo di me è rimasto di là, non so cosa fosse questo pezzo, ma è rimasto di là. Speriamo sia un pezzo brutto!

Marilena: l’anno scorso sei stato qui con la “Ballata di Van Gogh” quest’anno invece hai portato “Anamnesi paramediche” e mi chiedevo: non sei riuscito a portare in scena questo spettacolo prima di adesso, perché hai dovuto rielaborare questa malattia, oppure è stata una scelta puramente casuale quella di non anticipare…

Marco: questo spettacolo in realtà l’ho scritto prima di “Van Gogh”. Questo spettacolo l’ho scritto nel 2007,“Van Gogh” l’ho scritto invece nel 2011. C’è stato bisogno di prendere un po’ di tempo, un anno e mezzo, prima di prendere distacco dall’argomento.

Michelangelo: il fatto che il cervello sembra si sia quasi resettato non ha influito minimamente sulla sua professione?

Marco: sulle mie capacità attoriali? Sono diventato più bravo. Non lo so se c’entra, forse un po’ più intelligente di com’ero prima, me lo dice gente che mi conosceva da prima da dopo.

Luciano: perché, questo episodio della salute della tua vita, decidi di farne un dramma? cioè di portarlo in scena? Ti intriga l’aspetto della sanità, di tutto quello che avviene nella sanità, oppure la tua esperienza portata in scena? L’argomento della salute (ecco è una sotto-domanda) è stimolante dal punto di vista teatrale?

Marco: è stimolante quando lo vivi in prima persona, credo, perché io non avrei mai potuto fare uno spettacolo su una persona malata, su questo argomento, se non l’avessi vissuto io in prima persona. Può essere un limite mio, però non ce la potrei mai fare. Quindi io lo trovo stimolante perché è capitato a me, perché ho fatto uno spettacolo su questo, perché non potevo non farlo essendo quello che faccio nella vita, fare spettacoli. Di base dovrebbe essere questo. Nel momento proprio in cui mi è capitata questa cosa o trovavo un modo per portarla in scena, oppure mi fermavo e non facevo neanche più teatro.

Marilù: la connessione logica tra Adamo ed Eva, mi sai dire qualche parola in più al riguardo?

Marco: ho detto “partiamo dall’inizio”, e questa qua è venuta proprio da un’improvvisazione che mi sono fatto io per i fatti miei. Io, i miei spettacoli me li provo in casa. Li scrivo, provo le scene, così, tra il divano e il tavolo della cucina e ho l’argomento in testa e: “ potrei metterci degli intermezzi di…, insomma, di storia della medicina, così….”. Adamo ed Eva gli ho scelti perché: prima di loro potevo partire? No parto da lì, la Genesi.

Marilù: sei partito proprio dal principio.

Marco: son partito da lì: è venuta così, in improvvisazione.

Alessandro: penso che il rapporto che si è creato tra la tua storia personale e la storia di Adamo ed Eva sia rimasto un po’ ambiguo, carente nelle connessioni. Prendere la storia di Adamo ed Eva significa inevitabilmente suggerire delle chiavi di lettura o di interpretazione, soprattutto se si mette accanto una storia in modo parallelo. Secondo me ci sono quindi tra la storia di Adamo ed Eva e la storia personale, delle connessioni che mancano, che non sono ben chiare, sono a volte degli echi o, non lo so, degli inviti, però non penso sia ben saldo il rapporto tra di loro, a livello metaforico, a livello allegorico. A parte questo, trovo che lo spettacolo sia scritto bene. Penso che rispetto a quello dell’anno scorso sia una scrittura più matura. Molto più interessante questo che parla di te stesso, della tua vita, rispetto a quello dell’anno scorso. Io non sapevo che tu l’avessi scritto prima. Pensavo di aver visto un miglioramento rispetto all’anno scorso, non che quello dell’anno scorso sia stato… non voglio dire brutto, ma questo è sicuramente migliore, per me, perché: più interessante, più coinvolgente, più pieno di stimoli, suggestioni.

Marco: la cosa di Adamo che non ci sono connessioni: è vero; non è approfondito questo tema di Adamo ed Eva, ma non volevo approfondire, fare il paragone su io e .. Il concetto è della caduta e del prima e del dopo la caduta: la consapevolezza di quello che c’era prima e di quello che c’è dopo. Quindi dopo che Adamo ed Eva hanno mangiato la mela sapevano tutto, però effettivamente non erano così contenti. Io uguale: dopo la meningite ho imparato un sacco di cose, però sarei stato meglio a non sapere. Però ora va avanti così. Qua c’è il parallelo, non va più in là di così. Invece rispetto a “Van Gogh”: è vero; è più un divertissement. Io gli spettacoli ho l’idea poi li sviluppo e poi vengono fuori. Non è che c’ho un programma di come viene lo spettacolo così e parla di questo, perché, essendo che nascono facendoli, mettendoli, provandoli poi prendono vie che io non ce la faccio a seguirli bene come dovrebbero, quindi sono abbastanza dei mostri che si muovono per i fatti loro. Per cui “Van Gogh” è venuto un po’ così, a cartone animato, non è tanto profondo. Lo so, però sai quando hai un figlio che ti viene un po’ scemino…, gli vuoi bene uguale! “Anamnesi” essendo che toccava corde più profonde è venuto poi più profondo.

Lavinia: questa esperienza che hai avuto, sembra essere stata quasi duplice: da una parte c’è l’approccio del malato, sensitivo che è quello che serve, la chiave che tutti dovrebbero avere, dall’altra c’è questa leva che non ho ancora capito bene come ha influito. E’ successivo alla tua esperienza, ha un approccio non più sensitivo, ma più pedante, nel senso di andare a cercare cosa ha scatenato la tua malattia. Poi alla fine se non si hanno delle basi, un sintomo è uguale all’altro come hai messo in evidenza tu, ironicamente, una persona che non ne capisce poi diventa quasi ipocondriaco che vede malattie dappertutto, macchie dappertutto  proprio perché non si ha l’occhio che vede ciò che conosce: quindi se non conosci la malattia ti confondi solamente. E questo è l’approccio che purtroppo hanno molte persone, che non è quello di sentire, un approccio sensitivo così da permettere un’anamnesi accurata da parte del medico e quindi riconoscere subito di che malattia si tratta, ma invece è quello conoscitivo, cioè quello di andare su internet, vedere tutti i sintomi così o magari spaventarsi per una macchiolina rossa o leggendo tutti i bugiardini dei farmaci….. Vorrei un po’ capire quest’altro approccio.

Marco: allora tu hai fatto troppi voli pindarici. La signora Lea è un semplice, banalissimo pretesto scenico. Perché? Perché se fai uno spettacolo che parla della meningite due parole sulla meningite insomma bisogna dirle.

Lavinia: ma proprio due! (ride)

Marco: ma perché: che palle! Allora in una primissima versione dello spettacolo c’era questa parte qua e io la leggevo e basta, e la gente si addormentava. Allora mi era venuto in mente che c’era questa signora Lea. Io l’avevo conosciuta in una situazione in cui lei veniva sempre e faceva delle letture (su degli argomenti di cui non fregava assolutamente a nessuno) per ore, ore e ore: esattamente quello che fa qua la Signora Lea. Allora ho detto: “facciamo questa signora, facciamo farea questo personaggio, questo intervento della cosa pedante”.

Lavinia: proprio l’incarnazione della pesantezza.

Marco: la signora Lea è: l’incarnazione della pesantezza.

 

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resistenze012LETTERA di MARCO LUCIANO 

“Cari amici, colleghi, compagni di viaggio, 

è con grosso dispiacere e con immenso rammarico che vi scrivo per comunicarvi la sospensione de“L’INDISPENSABILE” rassegna permanente del teatro indipendente, giunta alla terza edizione quest’anno.
Premesso che oltre ad una comunicazione tecnica questa vuole essere anche un invito collettivo alla riflessione, alla discussione e al confronto magari.
Ci siamo interrogati a lungo, a lungo abbiamo valutato ogni possibilità, abbiamo tenuto duro, lottato perchè ciò non accadesse, ma purtroppo le condizioni politiche e culturali,  riguardo il contesto sociologico e artistico napoletano ci hanno indotto ad effettuare questa scelta con grossa coscienza.
In questo  momento storico-culturale all’insegna del “si salvi chi può” abbiamo sentito la necessità di tutelare noi stessi e il nostro lavoro.
Ovunque aprono spazi sull’onda del Valle, Macao, Ex Asilo Filangieri, spazi occupati che in apparenza e come maschera dichiarano di voler tutelare e dare nuovo vigore al nostro settore, attuando però una politica pesantemente in antitesi con tali presupposti. Offrono spettacoli (senza entrare nel merito artistico) gratuiti, gli artisti non vengono pagati in nome di un sostegno ad una lotta che noi francamente non respiriamo, non sentiamo, o che quanto meno riteniamo per modi e contenuti anacronistica, fuori luogo, aiutando a far si che si consolidi questa maledetta idea che gli operatori dello spettacolo sono “artisti”, e che quindi non vanno pagati;
offrono percorsi di formazione gratuiti diretti da benemeriti sconosciuti, svuotando i laboratori di chi invece ha fatto della pedagogia la sua ragione di vita e il proprio credo teatrale… tutto questo vi lasci immaginare la situazione economica in cui versa il teatro indipendente a napoli, ma crediamo in tutta italia.
Accanto a questa sconsiderata e incosciente politica dei “falsi amici”, l’altra politica, quella istituzionale cavalca la “balena” riempiendo le programmazioni comunali, almeno sulla carta e nelle delibere, di attività organizzate e realizzate all’interno di spazi occupati, questo è un pò paradossale no? …scaricando l’ennesimo barile, affinando ancora più l’arte della sordità e del mutismo, giocando a mosca cieca in un deserto metropolitano dove della cultura non vi è nemmeno la speranza…
Questi sono i motivi politici per cui L’INDISPENSABILE è diventato insostenibile, e di conseguenza avendo pochissimo pubblico anche quelli economici.
Se negli anni scorsi avevamo avuto mille difficoltà economiche e amministrative per portare avanti, anche grazie alla vostra disponibilità e passione, il nostro progetto, in questo panorama in cui ogni settimana vi è una smisurata offerta di spettacoli gratis,  è diventato impossibile per noi essere competitivi,  garantirvi pubblico e di conseguenza il seppur minimo compenso economico.
L’altro punto su cui ci siamo ricreduti è stata la proposta culturale che noi abbiamo lanciato 3 anni fa. Il nostro voleva essere un tentativo di dar vita insieme a tutti coloro che ci hanno sostenuto e che con noi hanno interagito e interscambiato esperienza e passione, un tentativo dicevo, di dar vita ad una rete indipendente e scevra dai/di meccanismi di produzione e distribuzione convenzionali. La ricerca di un’autonomia etica prima che economica e politica, e con tristezza ci troviamo oggi a fare i conti con il totale fallimento di questa proposta.
Abbiamo notato come l’atteggiamento di molti dei gruppi e delle compagnie incontrate sia innovativo nella forma e meno nella sostanza, di quanto sia invece radicata l’idea di un essere “off” per poi diventare “in”, senza il sogno di diventare qualcos’ “altro” dall’Off e dall’ In… ma di questo è inutile parlarne visto che delle proprie scelte artistiche, della propria vita ognuno ne è responsabile.
Cogliamo l’occasione per fare un’altra proposta: noi saremmo disposti ad impegnarci nell’organizzazione di un meeting tra giugno e luglio, occasione per incontrarci e discutere da vicino le problematiche che attraversano la nostra condizione di ricercatori, sognatori, operatori culturali.
Vi Chiediamo ancora di perdonarci per non riuscire a mantenere la parola data.
responsabili per ogni eventuale disagio.
un caro saluto

Marco Luciano
Area Ricerche Teatrali Indipendenti “

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resistenze0127° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Massimo Zaccaria
su “La cisterna” di Salvatore Arena
presentato da “Mana Chuma Teatro” di Reggio Calabria
interpretato e diretto da Massimo Zaccaria

 

“Prima di raccontare mi chiedo perché scelgo di raccontare questa storia e non un’altra? Pinuccio anni addietro lavorava in una rimessa lavaggio. Un compagno cade dentro la cisterna al cui interno ci sono vapori di zolfo, non ha scampo così come non hanno scapo gli altri tre suoi compagni intervenuti per aiutarlo. Un Giufà pugliese contro voglia, suo malgrado. Chi è Pinuccio, cosa vuole? Vuole che il nastro del tempo si riavvolga, vuole cancellare dalla sua testa il ricordo, il senso di colpa per la morte dei suoi amici. Vorrebbe entrare nella cisterna e salvare tutti.” ( Dalla presentazione dell’autore)

 

Massimo: mi è stato chiesto da parte di Francesco di confrontarmi dopo lo spettacolo e mi sembra una cosa molto giusta confrontarsi e ascoltare i pareri di chi è di fronte,  perché il pubblico fa da testimone a ciò che sta osservando.

Angela: volevo sapere da dove nasce la scelta di questa storia che abbiamo sentito ai telegiornali. Ha avuto a che fare con i protagonisti, chi è sopravvissuto, di questa storia?

Massimo: innanzi tutto l’idea dello spettacolo, di parlare di incidenti sul lavoro, è nata davanti a un’impalcatura a Lecce con Salvo, e Salvo mi dice: “ascolta, guarda questa impalcatura: c’è una rete verde bucata, cosa ti rappresenta?” Mi rappresenta, gli rispondo in modo molto banale e generale, il mondo del lavoro. “Sì il mondo del lavoro. Ma questa impalcatura e questa rete bucata a me rappresentano che manca la sicurezza sul lavoro e un operaio può cadere, inciampare farsi male o addirittura morire.” È una tematica interessante. Per trattare le morti, in generale, bisogna andare sempre in punta di piedi. Perciò gli ho chiesto di farmi riflettere, di pensarci. Poi siccome volevo partecipare al Premio Scenario, edizione 2009: senti Salvo io ci ho riflettuto: ok. Voglio parlare delle morti sul lavoro! Ho cominciato ad intervistare tutte le categorie degli operai, tutte: dall’operatore ecologico, al fabbro, all’autista…, insomma qualsiasi categoria di lavoro. Inizialmente noi ci stavamo basando su un altro tipo di storia: non eravamo ancora convinti che cosa raccontare delle morti sul lavoro. Finché il 3 di marzo 2008 accade questa maledetta tragedia. Mi arriva un messaggio da Salvo (era di mattina me lo ricordo benissimo) che fa: “vai immediatamente a comprare Repubblica e vedi cosa c’è sulla prima pagina.” Corro prendo Repubblica e vedo: 4 operai morti (non erano ancora 5, perché l’altro era ancora in coma, erano 4 operai morti, il quinto morì il giorno dopo). La storia è questa da raccontare, raccontiamo la tragedia della Truck Center di Molfetta e da lì abbiamo avuto la base per iniziare a lavorare. Il personaggio che avete visto, Pinuccio Mazzarri non è altro che un personaggio inventato, perché comunque la scrittura de “La cisterna” si è ispirata alla tragedia della Truck Center di Molfetta e il sesto sopravvissuto sarebbe quello che racconta.Quello che si è salvato, l’ho intervistato, non si fece vedere dalle telecamere e diceva di nascosto: io ho paura, io ho para. E da lì abbiamo capito che comunque gli è mancato il coraggio ad intervenire. Però il messaggio principale di questo spettacolo è: se fossi stato al posto suo che cosa avrei fatto? Sarei intervenuto a salvare gli altri miei compagni o no? Questo spettacolo oltre a denunciare le morti sul lavoro, parla anche di precariato non solo materiale ma anche sentimentale. Un uomo che vede morire i suoi compagni sul lavoro e che non è intervenuto per paura, dopo non è più lucido, non dorme più la notte, perde la cognizione del tempo, perché comunque hai quella immagine davanti sempre costante, notte e giorno. Quindi siamo partiti con lui che si è inventato una malattia al braccio ma è bugia, è semplicemente un dolore dentro, e quindi che fa? Impazzisce, tutti lo pigliano in giro. L’unica cosa che ha per liberarsi da questo male è l’attesa del Santo: San Nicola, che gli fa il miracolo. Ma San Nicola non gli fa il miracolo, se ne va. Quindi alla fine cosa serve per liberarsi da questo male? Raccontare la verità: che sono stato un vigliacco e che ho avuto paura di salvare i miei colleghi.

Emilio: ho capito che tu hai fatto pressione su questo personaggio che effettivamente si trovava in un momento molto delicato, però secondo me non è il caso di prendersela con una persona che magari dopo tutto può fallire. Cioè il vero problema è il precariato sul lavoro o le infrastrutture che mancano e non garantiscono la sicurezza dovuta. Però credo che la domanda non debba essere per forza che cosa avresti fatto tu al posto suo perché come esseri umani siamo tutti capaci di sbagliare… Poi anche la nube tossica che fuoriesce improvvisamente da una cisterna è comunque  un evento molto spaventoso, molto allarmante. Insomma è facile che una persona vada in crisi. Però ciò nonostante ho apprezzato molto lo spettacolo. Ho notato anche che nella prima parte le tematiche sono anche un po’ diverse, tant’è che mi ero immaginato una morale diversa perché all’inizio ho visto una persona che, certo, è schiava (si scopre dopo che è schiava del rammarico, dei rancori di ciò che è successo), però effettivamente è resa schiava da tutta una serie di situazioni: famigliare, sociale, di lavoro. Addirittura quest’uomo si illude di lavorare in un parcheggio, giusto?

Massimo: racconta che ha lavorato nel parcheggio: è stato il suo primo mestiere.

Emilio: io forse non ho capito bene la linea temporale degli eventi. Credevo di aver capito che quest’uomo “lavorasse”…

Massimo: parla del suo passato.

Emilio: è passato, quindi è precedente all’evento della cisterna?

Massimo: lui è in una piazza.

Emilio: sta raccontando che ha lavorato anche in un parcheggio, però effettivamente contare le automobili non è proprio un lavoro.

Massimo: allora leggiti il libro: “ Cento lavori orrendi” in Inghilterra!

Emilio: ah esiste veramente?

Massimo : esiste veramente.

Emilio: io ho pensato una cosa completamente diversa, cioè che quest’uomo fosse in una situazione di squilibrio tanto da impazzire. Comunque un lavoro molto umile, molto semplice, molto sguarnito di difese anche in caso di crisi.

Massimo: ci piace mettere la fragilità.

Emilio: mi sento in qualche modo di non colpevolizzare questa persona. Tutto qua. Io per esempio se fossi stato al suo posto, non so cosa avrei fatto, però non mi sembra scontato rispondere, cioè è una situazione critica.

Massimo: è una domanda o una considerazione?

Emilio: no, è una considerazione.

Massimo: quindi non c’è bisogno di risposta.

Emilio: non è ovvio diciamo dire: “avrei fatto bene, avrei fatto male”. E’ una situazione più da compatire che una in cui c’è da immedesimarsi, secondo me.

Lavinia: io credo di aver capito che la salvezza di quest’uomo sta appunto nel confessare la verità; però è anche vero che quest’uomo, per tanto tempo, ha cercato di omettere, nascondere la verità. Poi sommando questo dolore, sul braccio, proiettando questo dolore su qualcosa di fisico, piuttosto che spirituale, anche se la coscienza comunque lo addolorava. Io non capisco perché e quando lui ha deciso di confessare a se stesso la verità. Come l’hai vissuta?

Massimo: hai visto gli insulti della piazza mi dicono “e dai, racconta come hai perso il braccio, è inutile che ci pigli in giro che sei stato sulla barca che guidavi il camion, basta”: alla fine lui non ce la fa più. La gente, la gente della “piazza”, lo sa che finge, però si diverte a prenderlo in giro: è il Giufà cretino del paese. In qualsiasi paese penso, città, luogo, troviamo questo soggetto che la gente piglia in giro, un Giufà pugliese: “divertiamoci, dai, balla, fammi vedere come balli,” perché se ne approfitta di uno che è fragile. Ci piace mettere la fragilità in scena: noi abbiamo raccontato la fragilità dell’uomo. Siamo tutti fragili. Ecco perché poi si mangia il panino, lo sputa e dice “ora vi racconta come ho perso il braccio”, è la metafora, il braccio, per qualcosa che sta dentro. Ce l’ho sempre qui allo stomaco e non riesco a buttarlo.Sì io ho sentito che è accaduta quella tragedia, mi faccio la mia idea, però è più interessante sentire chi l’ha vissuta. In questo caso la nostra storia racconta che cosa è successo veramente quel giorno.

Lavinia: quindi è come se avesse scoperchiato tutte le difese che si era creato.

Massimo: certo, è abbattere i muri, liberarti della maschera che hai. È un po’ come andare a teatro, no? Salire sul palcoscenico prima o poi questa maschera che ci costruiamo nella quotidianità bisogna buttarla ed ecco perché bisogna lavorare sulle fragilità, denudarle, denudarsi; non avere paura, timore di essere giudicato, sospendere il giudizio. Quindi bisogna dire “ok, ammetto che questi sono i miei difetti” ecco. Questo è quanto.

Lavinia: ho capito quale è stato il passaggio: si è reso conto che era tutta una presa in giro, sapeva che la gente sapeva.

Massimo: sì, però voglio dire che “tanto è il cretino, facciamolo raccontare” in effetti la sua follia si vede anche nella gestualità (abbiamo lavorato su ogni punto dello spettacolo, ogni virgola dello spettacolo, gesto, corpo). Ecco la prima cosa da cui siamo partiti è il corpo: com’è il mio corpo rispetto a questa situazione? È un classico personaggio beckettiano,ecco, classico per eccellenza.

Francesca: dal punto vista scenografico, la scelta di questi tre elementi del colore bianco, ha un significato particolare oppure no? Rappresenta la piazza punto e basta?

Massimo: hai fatto una domanda molto interessante. Io giro senza scenografia. Il mio è un teatro immediato. Stasera è capitato il bianco. Domani farò un’altra replica: non so se avrò le tre sedie marroni o…Perché il nostro è un teatro chiamiamolo povero, perché non abbiamo furgoni, non abbiamo nulla, viaggio da solo. Inizialmente l’idea di Salvo era di mettere la cosa delle feste patronali, coi lumini, la finestra, lo scalino in fondo più grande, la sedia, lo sgabello, insomma tutto ciò che riguarda la piazza. Oggi hai visto le tre sedie bianche per caso, perché Francesco ha detto “io questo ho!”. Bene mettiamole. Domani non lo so. Ci piacerebbe avere un furgone, andare in giro con la scenografia, ma quando un giorno si decideranno a sostenerci, allora sì. Ma purtroppo il nostro teatro è questo: basta poco per poter raccontare. Comunque è interessante la domanda che hai fatto, perché sì, ti fa capire che tipo di teatro facciamo , sì,  teatro immediato, si chiama teatro immediato,questo.

Alessandro: ho trovato molto interessante la prospettiva che tu hai scelto per raccontare questa storia.

Massimo: scusami ti interrompo subito. La prospettiva è di Salvatore Arena. Testo e regia sono di Salvatore Arena. Io faccio solo l’attore narrante, ci tengo a precisare, perché sembra che me la sono vista solo io, invece no, c’è stato un regista e autore che ha curato tutto quanto.

Alessandro: è interessante la prospettiva considerata, per raccontare questa storia. Alla fine il fatto in sé della tragedia, dal punto di vista sociale, politico, è stata affrontata in un modo originale perché ci hai presentato la storia del personaggio nella sua quotidianità, in quel che è, nel linguaggio che ho trovato molto funzionale, questa lingua viva, della persona, della gestualità, delle sue storie.

Massimo: è il lavoro dell’attore.

Alessandro: ho trovato molto interessante questa operazione, perché ci rende più consapevoli della realtà di questo fatto: ci è più vicino. Anziché prenderla in un’altra maniera, più complessa, più articolata da un altro punto di vista, più tragico, invece questa linea di quotidianità, di comicità addirittura a volte, questa lingua volgare, ci calano nel personaggio, nella sua essenza, nella sua storia più intimamente, si crea un’intimità. E quindi questo finale che arriva è più nostro. Poi volevo far notare che una cosa che secondo me non funziona completamente è l’andatura, soprattutto del centro dello spettacolo, perché a volte vedo che ci sono dei meccanismi che si ripetono molte volte: della narrazione, del ricordo di qualche cosa o del gioco tra persona che non c’è e persona che c’è. A volte c’è una specie di ridondanza su questo. Volevo fare questa nota. Però è uno spettacolo che ho apprezzato molto per la sua onestà, per la sua reale esigenza di dire qualcosa, di mostrarci qualcosa che sia utile alle persone e alla storia.

Massimo: se scegliamo di raccontare è perché sentiamo il bisogno e la necessità innanzi tutto, perché se non hai bisogno e necessità: non raccontare. Quindi la prima regola è sentire il bisogno e la necessità. Ti rispondo subito sul fatto del ridondante della ripetizione: quando tu vivi nell’attesa e c’hai dei personaggi, degli animali, quelli che siano, vivi nella quotidianità: dico “dai non fare e lo rifà”. È voluto apposta, drammaturgico, è stato fatto apposta. Non mi voglio giustificare, per carità, ognuno ha i suoi pareri. Ma è una cosa voluta apposta perché tu vivi l’attesa che arrivi una persona, il santo. Nell’attesa può accadere tutto, possono anche ripetersi delle cose. Cosa è per noi l’attesa? C’è stato questo.

Giuliana: da quello che lei ha detto, la mia è un’osservazione e anche una domanda. Sembrerebbe che lo squilibrio mentale di Pinuccio sia stato causato da un senso di colpa o da un rimorso per non aver aiutato i suoi compagni, per non aver avuto questo coraggio. Ma la mia impressione invece è che Pinuccio abbia paura del lavoro, non di quel lavoro, ma di tutti i lavori: di lavoro come causa di morte. Lui finge di essere un invalido, la mia impressione è che lo faccia per evitare nuovamente quel mondo. Questa è una mia impressione.

Massimo: per carità, nulla da censurare, è un’osservazione, un’impressione: ognuno si fa il suo film, ognuno la vede a modo suo ed è giusto che sia così.

Paolo: in qualche momento tu riesci a percepire questo racconto in tempo reale, poi si distacca verso la fine e c’è la piazza e il racconto, però trattandosi di un monologo a tre voci, più voci…

Massimo: più voci.

Paolo: più voci, sì adesso no riesco ad individuare bene il numero di personaggi; questa impostazione realista va un po’ a perdere e quindi può diventare abbastanza tedioso per lo spettatore, questa ridondanza di cui parlava Alessandro prima. Tuttavia vorrei dei chiarimenti soprattutto dal punto di vista estetico: del panino. Quando tu mangi il panino e lo rigetti è come se …

Massimo: ti stai rispondendo da solo, lo rigetto.

Paolo: c’è qualcosa di…cosa succede al panino?

Massimo: il panino è l’unico pranzo durante la giornata.

Paolo: e perché non riesci a mangiarlo?

Massimo: perché mi rimane in gola, lo butto, lo vomito, perché adesso racconto la verità.

Paolo: ah, sempre per quella proiezione fisica

Massimo eh certo!

Paolo: poi tu inizi lo spettacolo come lo finisci, nello stesso modo, io vorrei capire…

Massimo: non ti sto capendo io, scusami…

Paolo: inizia con un borbottare…

Massimo: certo perché lui ha questa immagine della morte dei cinque, ed è come riavvolgere un nastro indietro. Cosa vuole Pinuccio? Riavvolgere indietro il nastro della storia. Quindi parte riavvolgendo il nastro e partendo dalle basi, per arrivare, grado per grado, grado per grado…inizialmente lo spettatore dice “ma che stai dicendo, che mi stai raccontando? Io sono venuto qui per sentire le morti sul lavoro che me ne frega della signora Maria…”: e il teatro è fatto di sorprese. Questo da un punto di vista drammaturgico.

Paolo: a me ha colpito molto questo…

Massimo: la sorpresa?

Paolo: no il fatto che il personaggio dice ad un certo punto “mi sveglio, non è cambiato niente” e alla fine dello spettacolo il protagonista chiude la rappresentazione come l’ha iniziata. Quindi non è cambiato nulla anche dopo la confessione.

Massimo: come non è cambiato nulla?

Paolo: perché si chiude nella stessa maniera in cui è iniziata. Non è cambiato niente in lui, vuol dire che lui non né libero adesso?

Massimo: è libero ora…per me è libero. Una volta che hai detto la verità che cos’altro vuoi dire più?

 

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resistenze0126° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Enzo Scipione
su “Che fare?” di Enzo Scipione
presentato da “Teatrarte” di Formia
interpretato e diretto da Enzo Scipione

“L’opera è tratta dal celebre romanzo di Ignazio Silone “Fontamara”. La disperata esistenza dei “cafoni” cioè di quei contadini che abitavano in un Italia meridionale di inizio novecento, fortemente arretrata. Senza allusioni e sottintesi mostrerà con quanta facilità i potenti di turno, riusciranno a raggirare gli abitanti del paese, con il solo uso della parola, privandoli cosi di ogni diritto, dall’accesso all’acqua, alla libertà di voto. Bisogna lottare anche con gli strumenti della cultura affinché la vita sia migliorie per tutti e soddisfare perciò la fame di giustizia dell’uomo.” (Dalla presentazione dell’autore)

Enzo: oggi la televisione, il computer, il cellulare ci hanno portato un po’ al di fuori della realtà dei giorni nostri. Se io penso a Formia che ha “Acqualatina” [gestore dei serizi idrici locale N. d. R .],(Latina è la mia provincia), è gestita dal sindaco di Formia dal sindaco di Terracina e dal sindaco di Fondi, che sono i tre sindaci delle tre città più grandi e che si sono divisi il territorio, era questa la situazione della deviazione dell’acqua e di tutto il contesto. Il discorso delle camicie nere è un po’ troppo lungo, perché il fascismo in Italia non è mai stato debellato del tutto: intendo fascismo come mentalità, perché siamo tutti noi un po’ fascisti dentro, forse anch’io un po’ lo sono, non lo so, o non me ne rendo conto. Chi sono i veri cafoni oggi? Dico una cosa bruttissima: i morti di Nassiriya, sono tutti del sud. Quindi la penna di Ignazio Silone non si è fermata a scrivere, ha lasciato pensare. È questo quello che mi ha spinto a mettere in scena questo libro “Fontamara” che è , da come dicono, scritto male, uno dei primi e scritto in un italiano un po’ contorto, non si capisce bene dove vuole anna’ a para’. Però scrive determinate situazioni e determinate problematiche di allora che sono dei giorni nostri. Tutto qua. Il testo è  stato scritto durante il fascismo, poi lui ha dovuto scappare in Svizzera. Tutto il mondo ha letto questo libro, tranne l’Italia, non so in quante lingue è stato tradotto, tutti l’hanno letto tranne in Italia, perché all’epoca era proibito, non si poteva leggere questo testo.

Tristano: perché questo spettacolo faceva paura?

Enzo: (ride) visto dagli occhi di un bambino sì, perché anche a mio nipote faceva paura. E forse le cose che dico sono molto brutte. Voi bambini giustamente vedete la vita tutta bella, sistemata, però non è così. Però non è che fa paura, dai. Dormi stanotte? Mah meno male! Forse la scena col mantello ti ha fatto paura. Quello mio nipote dice che è un pipistrello.

Luciano: nel tuo adattamento e riduzione quale filo logico, nonché drammaturgico, hai dato per dare un senso alla storia?

Enzo: Come vi ho spiegato prima è un romanzo un po’ ingarbugliato, sono cose messe lì, senza quasi un filo logico. Io l’ho letto ben 13 volte e il libro parte che non sono in carcere, mentre io ho invertito i ruoli. Io l’ho lasciato in carcere o sono partito dal carcere, perché lui va a fare una denuncia ai carabinieri, per quello che gli è successo, perché l’amico Bernardo viene ucciso. Ecco che si parte dal carcere, spiega tutto ciò che era il suo paese e poi ritorna al carcere a fare la sua denuncia e si vedono le camicie nere, che lo maltrattano e lo uccidono a sua volta. Detto in sintesi, questo è il percorso drammaturgico. Io inizialmente volevo anche accantonare il progetto, perché non riuscivo a trovare un filo. Nel libro c’è anche la storia delle signore che vanno dal potestà, che stanno senz’acqua, ci sono 10, 15 pagine che spiegano tutto: queste signore vanno dal potestà a dire “noi vogliamo l’acqua, noi non ce la facciamo” e spiega l’arsura e i giorni che sono stati senz’acqua ed è una cosa drammaticissima. Parecchie cose le ho dovute mettere da parte,ahimè, perché teatralmente parlando come facevi a metterle in scena? O comunque dovevi trovare altri personaggi, tutto qua. Per le camicie: mi servivano quattro persone che entravano e mi picchiavano, però non possono stare 4 attori ad aspettare un’ora per entrare, e fa ché? Allora ho trovato questo escamotage di queste camicie che si calano dall’alto e…

Luciano: bella la soluzione scenica, bella!

Enzo: è dura portare questo spettacolo in scena, specie in questi anni, è dura, è dura, è dura! Per le tematiche, perché lo definiscono un teatro politico, quando di politico… (tutto è politico se andiamo a vedere), di politico c’è ben poco. Qui c’è il cattivo uso della parola, un fatto storico che viene messo in scena. Possono stare a parlare quanto vogliono loro, la vogliono girare come vogliono loro, non mi interessa, sono cose realmente accadute, non è che dici “mi sono inventato una storia”, no! Io non mi sono inventato niente: ho semplicemente messo in scena.

Annamaria: l’opera è stata ottima, nel senso che ha fatto un’ottima sintesi, perché ha messo in evidenza l’ignoranza di cui purtroppo approfitta il potere. L’unica cosa che è mancata: una parte del libro mette in evidenza la lotta fra poveri, perché per un pezzettino di terra c’è una lotta continua fra i cafoni. E’ una cosa che oggi è attuale, perché noi vediamo che ormai c’è una lotta fra poveri. Dunque, io mi sono meravigliata che non ha messo in evidenza anche questa parte.

Enzo: diciamo che ho voluto mettere in evidenza di più il potere, il potere delle persone più che la guerra tra poveri. Diciamo che la tocco pure un po’, però la sorvolo. Sì, forse sarebbe opportuno approfondire anche questo discorso, però inizialmente il mio pensiero era mettere in scena il potere, il cattivo uso della parola, per abbindolare il popolo.

Annamaria: attualmente lo fanno.

Enzo: attualmente lo fanno e siamo tutti laureati! Però oggi ci facciamo abbindolare per convenienza, non perché non sappiamo. Oggi ci vendiamo perché non “c’abbiamo voglia di lavora’”, quindi voto quel politico che mi mette a posto il lavoro. Mi piace questa sua osservazione.

Alessandro: lo spettacolo che hai messo in scena, dico banalmente: mi è piaciuto molto. Innanzi tutto è di grande interesse, perché c’è la voce di un intellettuale come Ignazio Silone. Tu dici non lo leggeva nessuno all’epoca  non lo legge nessuno, secondo me, neanche adesso. È poco conosciuto. Io stesso non l’ho letto.

Enzo: posso fare un’osservazione? La Lega ce l’ha tolto dai libri scolastici. Ignazio Silone e altri due intellettuali del sud. La Lega durante il governo Berlusconi gli ha tolti dai libri scolastici dei licei.

Alessandro: ah, le buone notizie non mancano mai! Hai fatto una precisazione giusta. E quindi sentire la voce di un intellettuale, una voce forte di un intellettuale che non tanto si conosce, è bello, importante, utile, soprattutto in questo tempo; c’è bisogno di pensare in un certo modo. La messa in scena, penso che non sia tanto interessante dal punto di vista stilistico perché mi sembra che tutte le scelte che hai fatto sono sufficienti, necessarie a dire qualcosa; essenziali, spartane perché c’era qualcosa da dire di molto forte e che è venuto. Vedendo lo spettacolo mi sono rapportato io, la mia storia e ho pensato, soprattutto all’inizio quando si parla di miseria e dell’eredità della miseria: ecco lo spettacolo è molto attuale per le problematiche che ci sono, però nell’attualità manca in questo, cioè che la nostra storia, almeno della mia generazione (20-30 anni) è diversa da quella di quei cafoni, io non posso definirmi mai e poi mai un cafone nonostante possa avere tutti i problemi di oggi. La mia storia ha dietro di me dei padri benestanti, venendo da una ricchezza, da un benessere diffusissimi e quindi la mia generazione si trova alle soglie di una nuova povertà.

Enzo: sono due situazioni un po’ diverse…

Alessandro: sì sono diverse. La differenza tra i miseri del fascismo che secondo me erano molto di più, e quelli di oggi che sono diversi, hanno radici molto diverse, affondano invece in un grande benessere e quindi anche la povertà di adesso è diversa da quella di allora.

Enzo: sicuramente, hai pienamente ragione, però è una questione morale pure. Ho fatto prima l’ esempio tristissimo di Nassiriya. Io trovo triste questo: chi oggi mette la firma per andare a fare il militare. Diciamo “quello è un lavoro”: no, quello non è un lavoro, per niente proprio, non esiste! È triste, la questione è morale, i veri cafoni sono questi, evidentemente. Ignazio Silone parla di gente che sta alla disperazione e non arriva manco al giorno dopo. Quindi siamo cafoni moralmente. Anche per convenienza, la questione è morale oggi.

Alessandro: vuoi dire che la miseria di quei cafoni era una misera materiale e quindi erano persone difendibili di tutto cuore, mentre i cafoni di oggi sono cafoni moralmente.

Enzo: sì. Nel referendum che è stato fatto che io indico, comunque loro hanno avuto la forza di lamentarsi, noi ci siamo lamentati? No, boh. Niente. In Russia si sono lamentati che facevano la fila per il pane gratis, giusto? Oggi fanno la fila per il McDonald’s e pagano e nessuno si lamenta. La stessa cosa per le bollette che ci arrivano:  nessuno dice niente. Poi paghiamo il parcheggio: se non troviamo le strisce blu ci meravigliamo, oggi ho parcheggiato la macchina senza strisce blu, to’! Che bello . Capito? È una questione di cafoni, morale. Eppure forse è una cosa che ci sta bene, eh! Perché parecchi ragazzi della nostra età gli sta pure bene sottostare a determinati potenti. Il ragionamento è quello? La scuola è servita solo per divulgare un pensiero politico che tutti quanti sappiamo fare il bello e cattivo tempo e non un pensiero critico. Oggi siamo tutti politici di noi stessi, ragioniamo tutti come i politici che escono in televisione, che negano e affermano quello che dicono un minuto prima. E’ quello che succede quando parli con un amico, uno dice una cosa, uno dice un’altra cosa, poi nega no? È una questione politica, nel momento in cui tutti quanti impariamo a fare i politici è la fine e non abbiamo più un pensiero critico.

Alessandro: però a parte i cafoni morali, penso ci siano anche oggi cafoni nel senso di povertà, che sono gli extra comunitari.

Enzo: chi l’ha detto che sono extracomunitari, chi gli ha dettati questi confini? Dove stanno? ciò che produciamo possiamo liberalizzarlo gli esseri umani no, gli dobbiamo classificare, perché? E’ assurdo che loro oggi arrivano qua, in quelle condizioni e li meniamo pure. A Lampedusa abbiamo detto no, non li vogliamo perché se no si rovina il turismo. Stiamo fuori con la “ciocca” proprio. Assurdo! Perché farli venire in quelle condizioni? Però l’immondizia ce la portiamo là. Perché checché se ne dica la nostra immondizia viene portata lì. Tutti gli albanesi che sono venuti in Italia negli anni ’90 dovevano venire per forza. Guardiamoci in faccia: il governo italiano ci ha mangiato con Berisha, si sono spartiti i soldi a tavolino, è normale che poi gli albanesi dovevano venire qua.

Alessandro: come interpreti oggi la Chiesa (ho visto che nel tuo spettacolo che la Chiesa è stata molto colpita come istituzione). Vorrei sapere cosa ne pensi?

Enzo: mentre Dio pensava pure ai poveri, il papa diceva “no ma lascia perdere, il principe è un buon cristiano, che vuoi fa’ mo’, vuoi dare la terra ai cafoni? Poi il governo si offende”. Dio che era al di sopra delle parti, cercava di dare buoni consigli al papa e il papa non li prendeva proprio in considerazione. La Chiesa, cosa dire della Chiesa? La Chiesa ha creato anche i cafoni. Come Chiesa intendo l’essere umano. Poi chi crede in Dio, crede in Dio. Ritornando al discorso di prima del potere: cosa fa il potere? ti crea Mussolini, ti crea Berlusconi, ti crea la Chiesa, e altre persone.

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resistenze012 CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Francesco Martinelli
su “L’imbecille-La patente” due atti unici di Luigi Pirandello
presentato da “Teatro delle Molliche” di Corato
diretto da Francesco Martinelli

Roberto: voglio capire come si inquadrava il primo atto, in quale contesto.

Francesco: cioè “L’imbecille”. In un cotesto di fermento elettorale. Con precisione il contesto è questo: un deputato, Guido Mazzarini, vince all’interno di un collegio elettorale e dopo otto mesi i rivali non si rassegnano e continuano la loro battaglia politica contro questo personaggio, il quale per vendicarsi manda un regio commissario, come se fosse un commissario straordinario, a governare il paese di Costanova. Paroni, che è il proprietario di un giornale, sicuramente politicizzato, che faceva parte dello schieramento opposto, è in fervore tale che in qualche modo prega la morte di questo deputato e manifesta tutto il suo odio. Costanova, non si rassegna e continua a manifestare, a mettere in piazza la propria violenza, oltre che opposizione politica. Non ho voluto mettere dei riferimenti storici: è un contesto che può essere valido anche adesso, tra un po’ soprattutto! Speriamo che nella nostra campagna elettorale non ci sia qualche “imbecille” e, se c’è, speriamo che sia messa in evidenza la propria buffoneria. Pirandello dice che questo può essere fatto da un antieroe, che è Luca Fazio, che è prossimo a morire. Questa possibilità viene attribuita ad un personaggio come Luca Fazio, che sta per morire, e quindi non sappiamo alla fine se questo suo coraggio sia autentico oppure è il coraggio di chi ormai è prossimo a morire e non ha nulla da perdere.

Tristano: c’è molta fantasia o sono cose che accadono?

Francesco: tu che dici? C’è molta fantasia o sono cose che accadono?

Tristano: sono cose che accadono.

Francesco: ah, allora non mi fare la domanda a trabocchetto: sono cose che accadono. Bravo.

Paolo: hai presentato queste due storie come fossero un rebus? Una rappresentava i giochi malsani della politica, l’altra la stupidità, la superstizione di un popolo. Stupidità di un popolo nello specchio della politica. Era questo? Perché l’ho trovato un binomio interessante, ma spaventoso, veramente spaventoso.

Francesco: ci sono molte cose che nei due atti unici si possono mettere in relazione, confrontare, deducendone comunque una stessa poetica, uno stesso pensiero, che è quello di Pirandello. Forse quello che li accomuna è il fondale che abbiamo scelto: questa schiera di uomini disumani, dove non c’è più umanità. Questi eroi: Luca Fazio e Rosario Chiarchiaro, sono degli antieroi, sono delle persone perdenti, delle persone emarginate, non sono gli eroi che vengono glorificati. Vogliono punire non il singolo, ma l’intera società: Luca Fazio tramite la lettera, dove l’imbecille si dichiara imbecille; invece il Chiarchiaro vuole vincere la società, da una parte con rassegnazione, ma dall’altra con un po’ di furbizia, perché lui approfitta del male della società per sopravvivere. Non c’è proprio pietà, non c’è alcuna pietà. Luca Fazio è l’unico che in questi due atti dice “ho pietà della tua buffoneria”. Ha pietà? Questa parola in Pirandello io non la trovo genuina, la trovo sempre vendicativa, piena di astio, sempre detta fra i denti. Ci sono tanti parallelli tra i due atti unici.

Paolo: io mi chiedevo perché quei due. Però è proprio lampante. Luca Fazio si serve in qualche modo, tu hai detto della cattiveria, (hai distinto un po’ cattiveria e stupidità; in realtà per me cattiveria è stupidità e ce n’è molta in quei giochi politici che vediamo ne “L’imbecille”); si serve per dire: io sono morto, ma non ero un imbecille; o meglio: non ero io l’imbecille.

Francesco: se devo giudicare Luca Fazio e Paroni, dal mio punto di vista è più cattivo Luca Fazio, perché Paroni è uno dei tanti. Può essere stupido, ingenuo, irresponsabile, istintivo, può essere tante cose, però questa voglia di Luca Fazio di vendicare qualcuno la leggo come una cattiveria; forse era meglio parlarne oppure andarsene e lasciare gli imbecilli con gli imbecilli, piuttosto che lasciare un segno di vendetta. Ha fatto come ultimo atto, un atto brutto, perché è un atto di vendetta.

Paolo: sì, questo è vero, infatti non ci sono buoni e cattivi alla fine, soprattutto ne “L’imbecille”, ci sono solo imbecilli…

Francesco: e cattivi.

Paolo: ma non imbecilli…

Francesco: be’ uno che si suicida, uno che si vuole vendicare, dal mio punto di vista non è che sia buono. Sono due cose orrende: togliersi la vita e la vendetta, sono due cose orrende. Anche se è lì, che è malato, però lui si vuole proprio suicidare, cioè si vuole sparare.

Paolo: hai detto bene: non è buono. Ma secondo me la distinzione forte fra i due si sente ed è interessante, soprattutto poi vista nella prospettiva di una..

Francesco: ma tu come l’hai visto Luca Fazio? è buono?

Paolo: no, io l’ho visto…mi faceva paura, ho provato dell’inquietudine nel vedere il modo in cui si è comportato, ma buono no. Ma infatti secondo me è un quadro tutto molto negativo, anche nei personaggi del commesso e della redattrice, molto negativo: questo che è arrivista, questa che è “oohh il cadavere, che schifo!” (imitando parodicamente la voce), però è tutta eccitata; molto negativo anche nel personaggio di Luca Fazio.

Angela: nessuno esce vincente in queste storie. Alla fine l’essere umano dimostra di essere quello che è, cioè con le sue debolezze. Sia da una parte che dall’altra non esce un’immagine bella e pura dell’essere umano.

Francesco: vincenti ne usciamo noi, qualora diciamo di non voler essere così.  Io penso che c’è un modo per dialogare con la bruttura della società, io penso che ci sia un modo: che non è quello però della vendetta, quello del rancore, addirittura pregare la morte di qualcuno, o chiamare jettatore qualcuno, o fare della jettatura un mestiere. Penso che ci sia un altro modo di dialogare e Pirandello non l’ha messo in scena. Pirandello, alla fine della sua vita, dà una soluzione al dialogo con questa società, molto estrema: che è quella di andare su una montagna e staccarsi da tutti e vivere in  una forma di ascetismo onirico e rimanere lì, come “I giganti della montagna”, stare lì sulla montagna e vivere di sogni. Lui arriva a questa conclusione; io personalmente non la condivido.

Silvio: io vorrei soffermarmi sull’aspetto che riguarda l’interpretazione degli attori e non guardare l’autore, i testi. Vorrei capire dal punto di vista umano, dal punto di vista della forza che muove l’attore nell’entrare nel personaggio e in qualche modo cercare un incontro con questi personaggi. Come hai vissuto tu, nell’affrontare questi personaggi che hai interpretato, molto bene, nel capire così il pensiero di questi. Come sei entrato, come hai scelto e come hai vissuto l’interpretazione di questi personaggi?

Francesco: grazie per questi complimenti sulla mia recitazione. Bene che li senta anche mia madre, perché dice: figlio mio tu sai fare tutto tranne che recitare. (ironico) Ecco, mamma, senti, che c’è qualcuno che… ed era sveglio, mi guardava, mi sentiva… Passando al personaggio: per quanto mi riguarda io li sfrutto i personaggi, li utilizzo, perché fondamentalmente, e qui forse ha ragione mia madre, non sono un attore: sono un artista. Io ho bisogno di dire qualcosa e sfrutto questi personaggi. Quindi, quando li recito, li recito come se fossi in negativo, come se vedessi una fotografia in negativo: voglio dire una cosa utilizzando il personaggio che non dice quella cosa. Francesco vuole dire una  cosa, come artista, ma utilizza Luca Fazio o Rosario Chiarchiaro in contrapposizione a quello che voglio dire io. E’ come se volessi personalmente creare una catarsi di una cosa brutta, che io vedo, su di me, mettendomi questo personaggio e cercando di dire altro. È strano, io non faccio il personaggio, faccio me stesso, però utilizzando il personaggio, per dire delle cose: per dire nel caso di Luca Fazio “state attenti, che la vita è molto importante, state attenti, che la vendetta non è una forma di lotta contro le malefatte della società”; con Chiarchiaro “ state attenti, che qualcuno utilizza certe debolezze, certi vizi della società per farne un mestiere, però alla fine ne soffre tantissimo”(Ci sono un sacco di falsi invalidi che io sono sicuro che ne soffrono tantissimo, proprio perché non essendo invalidi, sì è vero che prendono gli stipendi, però ne soffrono, perché poi la società come invalido ti considera. Quindi già stai mentendo, menti a te stesso, utilizzi un sistema e rimani male). Bisogna stare attenti: Chiarchiaro non è uno jettatore: perché si vuole mettere a fare lo jettatore? Lui dice perché non ha altra via d’uscita. Però la via d’uscita non può essere questa cosa così negativa. Lo dico io che faccio l’artista, a Corato, senza posto fisso, senza teatro, senza niente. Lo dico io, lo posso gridare io, che ci sono altri modi, strumenti per poter affermarsi anche lì dove la società ti va contro, non accetta il tuo mestiere, non accetta la tua diversità, non accetta le tue idee: ti costruisci i tuoi spazi lavorando e vai avanti.

Silvio: attraverso quello che hai detto in effetti viene fuori il tuo pensiero, perché di solito è l’attore che viene utilizzato, invece viene fuori da quello che hai detto…

Francesco: il contrario…

Silvio: il fatto che ti identifichi più come un artista, che come un attore. Complimenti.

Francesco: grazie. Qualsiasi cosa faccio sembra che sono io. Questo sta nel fatto che ho l’esigenza di comunicare. Tanti colleghi sento che dicono “ mah nel teatro non c’è nulla da dire, noi non vogliamo dire nulla”; al contrario: io voglio dire tutto! “devi pensare quello che dico io”: proprio l’opposto dei miei colleghi. Chissà che fine farò!

 Marilena: io sono davvero contenta del fatto che per la prima volta in questa rassegna di Resistenze, c’è qualcuno che dice la sua verità, perché spesso con altri artisti, anzi attori o registi, nel momento in cui gli abbiamo sottoposti a delle domande, cioé gli abbiamo chiesto perché hanno fatto questa cosa, cosa gli ha spinti, qual è la loro posizione; o si sono astenuti oppure addirittura hanno chiesto a noi. Il punto è vedere l’ottimismo dove in realtà c’è il buio, più buio c’è più luce ci deve essere… alla fine la luce prevale sul buio. Questa penso che sia la tua poetica. E poi un’ultima cosa, riguardo il fondale. A me piace tantissimo, sono rimasta affascinata, passerei anche ore a guardarlo: questi volti senza capelli, sembrano delle anime in pena.

Francesco:  Chiarchiaro dice “ ho accumulato tanta bile, tanto odio per questa schifosa umanità”; Luca dà dello schifoso, del buffone, del pagliaccio a Paroni, quindi in qualche modo questi “E.T.” sul fondale sono la sintesi di una bruttura, che è quella, per Pirandello, della società.

 Marilena: sembrano disperati, senza ragione, non so, sembrano persi…

 Francesco: disperati non tanto, perché essendo tutti uguali, si dimenticano di essere così. Disperati siamo noi li guardiamo. ( ride) Disperato è uno che ha i capelli, va là dentro e chissà che cosa ti fanno! Allora subito ti rasi, così sei uguale all’altro e non ti fanno niente.

Marilena: sembrano dei manichini, dei prototipi, una specie di uomini, una specie.

Fancesco: sì. Poi tu hai detto “la tua poetica”. Non è la mia poetica, perché ci sono questi mostri, ci sono queste forme di bruttura, non è la mia poetica.

Marilena: no, io ho detto che comunque alla fine il tuo scopo è andare oltre quello e dimostrare che comunque c’è la luce.

Francesco: sì, però in Pirandello non c’è. La luce è proprio zero. Per Piradnello ci sono fuochi fatui, non ci sono luci.

 

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resistenze0124° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Laura Graziosi 
su “Italia Belpaese” di Laura Graziosi
presentato da “Offrome” di Roma
interpretato e diretto da Laura Graziosi

“Italia Belpaese è una maschera, a tratti mostruosa, che riporta in chiave surreale i discorsi delle persone comuni, un pensiero generalizzato sulla realtà odierna che però può nascondere inaspettate conseguenze, soprattutto se ad ascoltarla vi è una mente ingenua perché non ancora allenata con una propria capacità critica; sia perché essa risulta anagraficamente giovane, sia perché è forse sofferente per la mancanza di una guida da parte degli adulti, gli stessi che si occupano invece di riempire la casa, i marciapiedi, i mezzi di comunicazione, i bar, i negozi di tante parole apparentemente innocue.” (Dalla presentazione dell’autore)

Annamaria: Devo fare i miei complimenti, perché è stata un’opera briosa, spiritosa, ma nello stesso tempo ha preso tutti gli argomenti molto molto pesanti che in questo momento ci invadono. L’idea, le è venuta in che maniera?

Laura:  Questo spettacolo ha debuttato nel 2011, quindi proprio in occasione dei 150 anni dell’Unità di Italia. E quindi ovviamente quello è stato l’input iniziale: volere raccontare in qualche modo questo anniversario, però cercando di coglierne anche quelli che sono i punti di domanda rispetto a quello che vuol dire l’Italia unita, diciamo così, in tutta, però, la sua diversità; volendola raccontare però da un punto di vista piuttosto grottesco. Diciamo che l’escamotage del personaggio, come se fosse una bambina, vuole essere un modo per raccontare dei temi magari più reali e, comunque, drammatici in maniera quasi surreale alleggerendo la cosa, però riuscendo lo stesso a raccontarli.

Annamaria: è riuscita bene, perché con questa attualità è molto molto difficile rendere poi l’opera abbastanza leggera come è stata. Non è uno scherzo.

Laura: volendo mantenere un contenuto, però raccontandolo in maniera tale che potesse essere anche molto fruibile, perché in fin dei conti quel che si racconta è la quotidianità più immediata di tutte, non è che si approfondisce nessun tema in particolare; però proprio per questo magari chiunque, in qualche modo, può sentirsi coinvolto.

Luigi: i complimenti sono scontati, gli applausi sono meritati. Mi interessava cogliere alcuni aspetti specifici del lavoro teatrale: il primo tra tutti, diciamo, è recitare da soli: è sempre complicato, è sempre difficile fare dei monologhi, soprattutto farli di una certa durata. Mi è piaciuto molto il taglio e soprattutto il ritmo molto stringato. Perché non pensare di fare, invece, con più attori un lavori del genere?

Laura: questo spettacolo è nato con l’idea di un monologo, anche per voler assommare per immagini l’Italia; quindi ho un solo elemento che dice: io solo l’Italia; però dice anche: io sono questo, questo, questo, tanti pezzi di me fanno un solo corpo; quindi proprio guardando un po’ la cartina, sì, lo stivale, ma anche una persona sdraiata, poi ognuno ha un proprio immaginario, si crea una visione. Poi comunque c’è da dire che sono tre anni che ho iniziato un percorso proprio di scrittura di monologhi, che poi metto in scena. Quindi, se vogliamo, questo è stato il mio secondo monologo. Il primo era molto più visionario, questo continua su, comunque, un grottesco, un elemento surreale, però ho voluto un po’ più radicarlo con dei contenuti un po’ più reali, più quotidiani. È stata proprio una scelta mia di percorso professionale, un po’ proprio come idea in sé dello spettacolo, diciamo così.

Luigi:ioaggiungerei ancora un’altra cosa. Siccome talvolta si dice che la realtà supera l’immaginazione, la fantasia, quindi anche il grottesco. Lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi del nostro paese purtroppo è abbastanza doloroso per tanti versi. Oltre il grottesco c’è dell’altro?

Laura: nel momento in cui mi è venuta l’idea dello spettacolo, era l’anno scorso, quindi si sentiva tanto parlare su alcuni canali dell’anniversario dell’unità di Italia: tante commemorazioni, tante feste. Poi io sto a Roma, mi ero appena trasferita, quindi, come dire, lo senti anche di più, se vogliamo, perché vedi musei ovunque che vanno continuamente a rinnovare questa ricorrenza…Però nello stesso tempo parlando con delle persone comuni, mi rendevo anche conto che era tanta manifestazione, ma poi nel quotidiano, molte persone questo senso di unità, questo avvenimento un po’ se lo perdevano, o comunque non riuscivano a dare un significato perché erano sopraffatti dai problemi del quotidiano di questa Italia. E quindi mi sono proprio posta la domanda: come fare a mettere insieme queste due cose? Appunto quello che vuole essere l’avvenimento storico e la celebrazione, sia però la realtà dei fatti che viviamo oggi? Che cosa prendo tra un qualcosa che possa stare a metà tra il reale e il quasi non? Un modo è il grottesco, che mi aiuta in questa direzione, quindi poter anche esagerare dei toni per andare a calibrare, a bilanciare quello che poi vado a raccontare. Poi personalmente vengo da un percorso di Commedia dell’Arte abbastanza lungo, quindi una cosa che mi appartiene molto è la caratterizzazione anche marcata degli umori, dei caratteri e quindi mi sembrava lo strumento migliore in questo caso.

Alessandro: penso che lo spettacolo sia certamente piacevole, nel senso che a fine spettacolo si è sereni, si è contenti di averlo visto, è passata una piacevole ora. Questo sicuramente grazie all’abilità sua di aver saputo mettere in scena un monologo e averlo scritto in questa maniera. Però voglio dire comunque che come operazione rimane epidermica, perché certamente penso che parlare dei temi in quel modo sia abbastanza semplice, facile, non sia difficile: basta guardare il telegiornale e si viene a conoscenza di queste tematiche. E quindi penso che una buona parte dello spettacolo sia stata molto didattica, quasi eccessivamente didattica, specialmente per questo tipo di pubblico di questa sera. E a volte questa tipologia di didattica è però un po’ pesante.

Laura: è leggera o è pesante?

Alessandro: pesante. Paradossalmente, alla leggerezza dello spettacolo è pesante invece la tipologia didattica, perché il tema non viene come lei ha detto approfondito, ma viene detto. E tra l’altro in un periodo storico come questo, parlare di questi temi in questo modo è abbastanza facile, perché se ne parla ogni giorno. Io di questo spettacolo quindi salverei: la piacevolezza, perché comunque è piacevole, non lo metto in dubbio, alcuni passaggi interessanti, battute e il finale, quello in cui dice “stiamo tutti uniti e verrà presto il lieto fine”. Ecco questo finale tutto sommato penso sia interessante, penso che aver creato un’atmosfera gioiosa, contenta nel pubblico e quindi introdurre questo messaggio predisponendo il pubblico in quel modo, beh penso sia utile questo invito a stare uniti in questo modo. Anche se mi viene pure il dubbio che essendo stato scritto nel 2011 questo riferimento allo stare uniti sia un riferimento all’unità d’Italia e quindi anche questo facile.

Laura: va bene, ci sta, anche questa tua osservazione nel definirlo facile, rispetto magari a quelle che possono essere le tue conoscenze. Mi dici: di fronte a questo pubblico: io non lo conosco. Nel senso, questo è il mio spettacolo, poi se di fronte ho scienziati, storici sono felice, però per me possono essere anche persone di qualsiasi altro tipo di preparazione, quindi è proprio una scelta, quella di raccontare tramite la figura di una bambina, proprio per questo: per andare molto diretta e semplice, giustamente come dici, a sfogliare l’album di quello che quotidianamente potrebbe disgraziatamente non andare. E quindi è uno sfogliare un album delle figurine e non a caso appunto ho scelto il personaggio della bambina. Altrimenti si poteva fare teatro civile, no?, quindi andare veramente ad approfondire dei temi e ci sono degli spettacoli e autori che seguono questa linea. Non è la mia, né in questo caso specifico ho voluto fare questo semplicemente. Anzi proprio l’atmosfera del grottesco vuole proprio giocarmi contro in questo senso, rispetto a quello che tu magari ti saresti aspettato, perché appunto il grottesco serve a raccontare in maniera non drammatica qualcosa che invece potrebbe esserlo, rappresentare la realtà in maniera caricaturale. Nel momento in cui fai una caricatura ovviamente vai ad approfondire una cosa, dei caratteri, dei toni, non vai ad approfondire il contenuto nel suo insieme, perché sarebbe un’epopea poi in questo caso, quindi è stata una mia scelta, voluta.

Alessandro: comunque rispetto al pubblico non parlavo di un pubblico rispetto alla preparazione, ma semplicemente a un pubblico adulto, medio borghese.

Laura: sai poi ognuno…non so come dire questo tipo di spettacolo penso che sia…non mi vorrei ripetere…il contenuto ti arriva con una visione generale, poi ognuno se rimane colpito da qualcosa io sono contenta così e si porta a casa le proprie riflessioni.

Annamaria: è invece molto più facile metterlo sul drammatico. Per me è molto più difficile farlo in quella maniera, perché sono tematiche così serie, che ormai anche in televisione, sui giornali…mentre farlo in quella maniera grottesca, ironica e briosa non è facile.

Laura: io ovviamente con questo spettacolo non voglio spiegare niente, andare veramente a denunciare niente. Ripeto, è una linea, poi ci sono altri tipi di messa in scena che invece decidono di andare proprio ad esplorare quel senso lì del lavoro. Sono scelte.

Alessandro: Penso di essere stato sicuramente frainteso, perché io non mi riferivo a questo. È chiaro che è difficile, infatti pochi ci riescono: Benigni, e qualche altro. Anzi è bello riuscirci. Ma non mi riferivo a questo, cioè non mi riferivo alla capacità e all’abilità di raccontare in modo grottesco in modo comico situazioni drammatiche. Mi riferivo invece, alla scelta, all’illustrazione, al modo, ma non al modo nel senso l’abilità dell’artista, dell’attore di utilizzare un registro che si contrappone al contenuto, ma al contenuto stesso.

Laura: probabilmente quando si viene a teatro non bisogna mai avere delle aspettative: forse inconsciamente tu le avevi, come è giusto che sia. “Italia Belpaese” avevi letto, non lo so, la presentazione, ti eri creato un’aspettativa, che andasse a soddisfare alcune tue esigenze. Magari volevi vedere in maniera più approfondita determinate tematiche piuttosto che altre, magari che ti toccano di più, e così non è stato. Mi dispiace. Però, forse, il mio modo di creare spettacoli si aspetta, dal mio punto di vista, che il pubblico sia qua in maniera totalmente aperta. Poi se comunque lo spettacolo arriva, al di là delle tue aspettative in maniera inaspettata, secondo me ho ottenuto il mio risultato. Confidando in qualche modo che anche il pubblico lo sia, per questa piccola cosa che ho potuto lasciare rispetto a questa cosa che ha visto, che sia solo un’immagine, però comunque qualcosa c’è stato e per me va bene così, perché appunto non avevo intenzione di andare oltre quello che poi ognuno di sé deve fare. Io ti do questa fotografia, tu vai a casa e, se in qualche modo ti viene in mente qualcosa che ho detto o che ho fatto, ti sei portato a casa per me il mio spettacolo e sono contenta così.

Alessandro: io voglio aspettarmi qualcosa dal teatro e penso che qualsiasi pubblico …

Laura: no parlavo di aspettativa di contenuto non di…cioè uno arriva e dice “sicuramente mi parlerà di” cioè non si sa, arrivare carta bianca e lasciarsi colpire da qualcosa. Se in qualche modo ti può aver suscitato delle riflessioni per me è già(ride): grazie! Significa che sei stato attento. (leggeri applausi).

Alessandro: Questo vuol dire che la situazione non è proprio buona. Cioè se l’obbiettivo è che il pubblico sta attento, vuol dire stiamo (eloquente)…

Laura: ma non è solo quello!…è ironia, su dai. Un po’ di ironia! Su, dai!

Alessandro: ma infatti ero ironico…

Enrico: Vado con una domanda veramente tranquilla. Si parlava di fuga di cervelli e siamo aggiornati su questo. Prevede anche fuga di attori, operatori di teatro in futuro?

Laura: è una domanda che ci poniamo ogni girono, tutte le ore, purtroppo. Dico purtroppo perché comunque la situazione la conosciamo, è difficile, è difficile in tutti i campi, a maggior ragione il campo come quello della cultura che, senza finanziamenti pubblici, purtroppo non può reggersi, per questioni, insomma, burocratiche e anche secolari ed economiche in sé. Per cui purtroppo, insomma, è una cosa che viene presa molto in considerazione, molti miei colleghi si sono trasferiti all’estero, sì, perché in Italia è difficile girare con il proprio spettacolo, perché le stagioni tendono ad acquistare spettacoli di persone note, quindi rimaniamo eternamente gli emergenti quando magari oramai abbiamo 10 anni alle spalle e insomma vorremmo anche essere, come tutti nel mondo del lavoro, inseriti. Invece rimane ancora una cosa sempre estremamente traballante.

Enrico: E signora Laura, mi sono rivolto a lei perché lei rappresenta la giovane schiera degli attori. Immagino già quanti sacrifici affrontate e quindi: vogliamo volgere tutti insieme un augurio per il futuro a voi giovani? Vogliamo essere un pochino ottimisti in questo pessimismo generale?

Laura: ma si, ci proviamo e anzi il pubblico in questo è fondamentale, fondamentale perché da sostegno sia morale…veramente anche questo scambio, quindi significa che ci sono persone che vengono e hanno interesse anche a conoscere e a riconoscere che hanno visto un lavoro, che poi sia piaciuto, non piaciuto in un modo o nell’altro, però almeno è un lavoro che ha necessità di continuo scambio di continua linfa e quindi il pubblico è la controparte che sorregge veramente tantissimo. È fondamentale, è il motore che porta poi avanti il lavoro dell’artista.

Luigi: l’ha portato anche nelle scuole questo lavoro? Perché molti dei materiali (magari c’è chi si informa, chi legge per fortuna ogni giorno con un po’ di sacrificio) non arrivano a un pubblico più ampio, anzi ai pubblici che meno sono a contatto con questa forma di spettacolo, che è il teatro. Le chiedevo: l’ha portato anche per le scuole?

Laura: no, purtroppo ancora non l’ho fatto, era mia intenzione. Mi devo organizzare in tal senso.

Luigi: è un taglio di pubblico molto ricettivo da questo punto di vista, secondo me. Ma anche dalle scuola più piccole, anche dai bambini più giovani ecco.

Laura: sì, ho già avuto altre esperienze con le scuole, ma con altri spettacoli . Questo non l’ho mai proposto, però è una cosa che vorrei fare. Almeno verificare.

Luigi: saranno sicuramente interessati, perché diamo per scontato che si conoscono dai libri queste cose ma ormai il libro è diventato materiale raro e gli insegnanti fanno grandi sforzi per farlo arrivare, ma non arriva. Con una forma di spettacolo forse arriverebbe meglio.

Emilio: io ho apprezzato lo spettacolo, l’ho trovato molto leggero, l’ho trovato divertente, brioso, come ha detto la signora giustamente prima. Però non nascondo che anche io avrei preferito un taglio più ironico che comico, diciamo. Come ha detto giustamente il signore poco fa è un spettacolo che ha comunque un buon livello di comunicazione primaria, diciamo di primo grado, possiamo dire. Quindi si presterebbe bene  alla comunicazione nei confronti di ragazzi. Però, in effetti, anch’io oggi mi aspettavo comunque un taglio più ironico, anche magari freddura al livello di battuta, che comunque faccia riflettere.

Laura: la mia è una scelta in questo senso, cioè andare a colpire veramente la parte più ingenua, diretta e limpida di una persona senza necessariamente anche volerle far del male, perché spesso il pubblico ha necessità invece di quello. Tu adesso [mi fai] del male in qualche modo, perché è anche così, questa sorta di catarsi si vive vedendola nell’altro e tu torni a casa e sei più… (sospiro eloquente). É una linea, una strada, non mi permetto assolutamente di giudicarla in alcun modo, probabilmente in questo tipo di spettacolo non mi apparteneva, cioè, per me, dire che ad alcuni bambini gli è caduta addosso tutta la città, a me arriva immediatamente un pugno qui, anche mentre lo dico. Poi se qualcuno del pubblico ha una ricezione di queste cose più distaccata e voleva ancora dell’altro per farsi male quello poi dipende, sai, sono le reazioni del singolo. Però io mi sono fermata a quel livello lì per andare ad imprimere, appunto, un soffio.

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resistenze0123° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Antonio Damasco e Valentina Padovan
su “Comizi d’Amore” di Antonio Damasco
presentato da “Teatro delle Forme” di Torino
interpretato da Antonio Damasco e Valentina Padovan
                                    e diretto da Antonio Damasco                                                                 

“Il soggetto è ispirato al film documentario di Pier Paolo Pasolini del 1965. Pasolini volle parlare di “prima volta”, di “prostitute” e di “divorzio”. Oggi, quasi cinquant’anni dopo, come sono cambiate le opinioni in merito? Ci interessa capire, osservare, raccogliere e narrare come questo avvenga nell’era globalizzata di internet, dei social-network, le nuove piazze virtuali, dei blog. Siti web, annunci, diari virtuali raccontano una necessità d’Amore travolgente, la stessa che già, qualche tempo prima, travolgeva padri, madri, nonni e parenti tutti anche se, forse, in maniera differente.”                                                                                                       (Dalla presentazione dell’autore)

Sara: dal momento che le avete poste a noi, durante lo spettacolo, io vorrei sapere qual è la vostra posizione nei riguardi delle domande che avete fatto, rispetto a quello che ci avete chiesto.

Antonio: rispetto a quali domande?

Sara: condividete quello che abbiamo detto noi?

Antonio: io ho due bimbe, piccole, e la prima volta che mi sono posto la domanda, per esempio, su un eventuale suo fidanzato o marito di religione islamica, io ho delle perplessità, ho dei pregiudizi. Riconosco di avere dei pregiudizi. Quindi ho delle problematiche sicuramente. Noi ci dobbiamo porre, per quello che è il nostro obiettivo, come persone che non giudicano. Siamo due persone normalissime, con la loro vita e quindi abbiamo i nostri dubbi, le nostre perplessità. Anche questo credo che cambi molto: la conoscenza. Se hai nella tua comunità persone omosessuali, che hanno bambini, per esempio, noi abbiamo conosciuto, grazie a questo lavoro, delle ragazze che vivono insieme, hanno una bambina molto bella, e, per esempio, la conoscenza elimina il pregiudizio. Probabilmente se dovessi conoscere una coppia dove lui è musulmano e lei è cattolica, romperei anche quella barriera lì.

Sara: Sì, potrebbe aiutare a sradicare il pregiudizio… La mia domanda è sorta perché voi avete attinto delle informazioni da noi: cioè conoscete qualcosa in più di noi e però noi non conosciamo qualcosa in più di voi.

Antonio: questo è il nostro vantaggio: permettici (ride).

Sara: Però io sono venuta qui con anche la pretesa di conoscere qualcosa di nuovo, che effettivamente mi è giunta attraverso il confronto col pubblico, ma non con l’attore.

Antonio: Guarda, però, per il nostro concetto di teatro, il teatro risposte non ne dà. Il teatro mette dei dubbi e poi ognuno se li cucina a casa propria. In realtà alcune cose teatrali che abbiamo fatto forse in qualche direzione andavano, quello sul cantastorie nel campo di concentramento, la necessità della cultura o quello dell’omosessualità in  campo di concentramento. Però se le curiosità sono personali, la mia risposta è: ho delle perplessità anche io, credo che le risolverò nel momento in cui incontro quei casi.

Valentina: A me ha colpito molto la risposta di Musatti e di Moravia, quando parlavano appunto del fatto che in qualche modo l’ignoranza, nel senso di ignorare quindi di non conoscenza, sia collegata alla paura, no? Io devo dire che personalmente sono molto più curiosa e colpita da come le persone rispondono alla domande, nel senso: molte domande a me sembrano scontrate, non lo so, anche soffermandomi a sentimento, come chiedo alle volte quando le persone non trovano il coraggio di rispondere perché è questione di coraggio, o non rispondo o rispondo in maniera falsa: bisogna trovare il coraggio di rispondere, di dire effettivamente… come c’è anche un tempo per pensarci, perché a caldo uno risponde, poi metabolizza e riporta magari un altro pensiero, magari più articolato. Questo mi colpisce molto, però, grazie anche alle risposte del pubblico, io ho trovato degli aiuti a quelle che erano le mie risposte di pancia che venivano automaticamente, per esempio, è venuto fuori sulla domanda “sei favorevole o contrario ad una coppia omosessuale che decide di avere figli?”, alcuni mi hanno risposto: “sarei preoccupato per l’ambiente, non per la coppia che accoglie questi figli, ma per la società che accoglie figli di coppia omosessuale”; la domanda sulla prostituzione: “vocazione o costrizione”: abbiamo trovato anche una parte buona di vocazione, per esempio, ad Arezzo. E questo è interessante, appunto, per il lavoro di inchiesta e già Pasolini lo fece, perché si metteva l’accento sulle differenze tra nord e sud, tra i ceti sociali differenti e ne è venuta fuori una cosa diversa da quella che ci si aspettava, un po’ come, un po’ stiamo riscontrando anche 50 anni dopo.

Luca: Il mio problema è questo: se vediamo la situazione delle coppie omosessuali  da un determinato punto di vista, possiamo vedere questa situazione come un cambiamento di una opinione pubblica. Cosa voglio dire? piano piano le persone si stanno abituando o stanno pensando che è qualcosa di possibile, legale, non amorale quella di stare con una persona dello stesso sesso. Quindi c’è questo “shift”, questo cambio di opinione. Quello che io mi chiedo: come c’è stato questo cambio di opinione su questa materia, non ci può essere un cambio di opinione su altre materie, ad esempio, la pedofilia? Cosa voglio dire? Fin dall’antichità ci sono stati casi di pedofilia, come ci sono stati casi di omosessualità; per un certo periodo a causa della cultura cristiana tutti questi casi sono stati taciuti. E quello che mi chiedo: in questo momento noi consideriamo, per esempio, la pedofilia qualcosa di estremamente negativo, ma in un prossimo futuro, se l’opinione comune cambiasse, anche questo tema della pedofilia sarebbe accettabile come piano piano noi stiamo accettando il tema dell’omosessualità? Non è una domanda a voi come attori, ma a voi come persone, diciamo, intellettuali…

Valentina: Morale deriva da “mos, moris”, no? Quindi usi e costumi. Gli usi e costumi seguono la condotta umana. Quindi io credo che possa anche avvenire qualcosa del genere. La pedofilia, anche lì, l’etimologia della parola è amore nei confronti dell’infante, quindi è amore, sempre. È un discorso molto articolato che abbiamo affrontato, anche, preparando lo spettacolo, perché effettivamente una ragazza di 11 anni a cui arriva il ciclo è naturalmente propensa a riprodursi, la natura ci sta dicendo che in quel caso potrebbe essere. Però dobbiamo renderci conto che ci sono una serie di sovrastrutture culturali, che in qualche modo abbiamo introiettato. Però come dici tu, se stiamo riuscendo, perché credo che questo sia il tuo sentimento, che nella società stia avvenendo questo passaggio, in qualche modo si arriverà a percepirlo come consuetudine, il fatto che una coppia omosessuale possa stare insieme, possa avere dei diritti come coppia e ad avere dei figli. Probabilmente, io credo che potrebbe anche succedere, non so quando, non so come, però potrebbe…

Antonio: Un anno fa feci le stessi domande che stiamo facendo a voi a Barcellona: c’era un laboratorio teatrale, con dei ragazzi che lavoravano con me per una settimana e lì, visto che 5 anni fa uscì questa legge per la legalizzazione dei matrimoni omosessuali e naturalmente anche dei figli, era un dato di fatto, non c’era dubbio, il 99,9 % accettavano immediatamente. Io non so rispondere alla tua domanda, penso però lo metterei nella casella “colpe dei padri ricadono nei figli”, nel senso: siamo noi a decidere com’è la nostra società, quindi evidentemente c’è da capire cosa succederà. Possono essere molti i cambiamenti di costume. Hai toccato un tasto complesso, difficile. Però un tasto che dovrà in un modo o nell’altro gestito dalla società stessa, cioè quindi da voi che siete un po’ più giovani di me o quelli dopo di voi. È evidente che in assoluto “impossibile” non esiste, attualmente lo vedo abbastanza impraticabile (anche come domanda ci ammazzano!); nell’idea politica di…in un’idea di discussione dialettica che stiamo facendo, non accorperei le due cose: cioè l’omosessualità non c’entra niente con la pedofilia, questo ovviamente penso che siamo tutti abbastanza d’accordo, ma attendere quello che sta capitando e che per esempio la famiglia che noi conosciamo, che noi conoscevamo, non ha più la stessa fisionomia, sta mutando, questo mutamento però mi sembra in parte voluto da noi stessi, insomma, altrimenti non si spiegherebbero la quantità di persone…Non so se avete visto i dati sui divorzi e sui matrimoni, o sulle famiglie allargate, che ormai sono una realtà non dico maggioritaria ma quasi, sta veramente rendendo moltissimo alla nostra società.

Alessandro: Trovo innanzitutto bello, nobile e utile riproporre la voce di un intellettuale, come Pasolini. Mi ha scosso, mi è piaciuto molto…piaciuto, beh, non è proprio la parola corretta. Voi avete preso “Comizi d’amore” di Pasolini e ne avete riproposto diversi stralci, diversi frammenti, però avete dimenticato di riproporre la fine, di farci vedere come finisce il documentario di Pasolini. Perché la stessa vostra proposta non ha una fine. Sarebbe stato, trovo, molto più interessante confrontare la fine del documentario di Pasolini, quindi col suo giudizio riguardo l’Italia della metà degli anni ’60, con un giudizio vostro o comunque di voi che avete condotto l’indagine parallela, riguardo un giudizio dell’Italia del 2012 e farne un confronto, vedere le evoluzione e sovrapporre. Trovo che questo sia mancato. In secondo luogo riguardo invece lo spettacolo in sé, è uno spettacolo che provoca, penso, tante reazioni, già il fatto che si vada nel pubblico direttamente crea necessariamente delle reazioni impreviste. Trovo il contrasto tra le scene di Comizi d’amore e il vostro modo di rappresentare e di teatralizzare; nel senso che Comizi d’amore lo trovo pervaso da una dolcezza, una tranquillità, mitezza che invece sono di contrasto a una specie di inquietudine che voi trasmettete nella vostra rappresentazione e quello che dite e come lo dite. Trovo inoltre che il vostro modo di fare domande al pubblico, non penso sia utile, almeno nel teatro, poi non so, per strada forse sì, ma nel teatro qui dove l’avete fatto voi, non penso sia utile, perché vi ponete in modo teatrale non naturale al pubblico, che è naturale. Cioè voglio dire che nel modo di porre le domande, voi vi teatralizzate, siete teatralizzati e teatralizzate ciò che fate e quindi vi ponete in modo innaturale rispetto a un pubblico che recepisce naturalmente e quindi si sente di conseguenza inibito a rispondere o provocato. Non c’è naturalezza come nel documentario di Pasolini, invece c’è sempre distanza. E questo voglio evidenziare rispetto al documentario di Pasolini, cioè queste differenze forti: nel documentario di Pasolini c’è una grande naturalezza ed è piacevole, mentre qui no, qui c’è tensione proprio per questo contrasto.

Antonio: Non è una domanda, quindi non devo rispondere, no?

Alessandro: La domanda è perché non avete messo la fine del documentario?

Antonio: Lo spettacolo, come dichiarato, è un teatro inchiesta che è partito due settimane fa, terminerà fra un anno. Noi il 3 ritorniamo a Torino, lo rimettiamo in prova, grazie ai risultati e alle risposte che stiamo avendo, abbiamo avuto anche da voi. Quindi cambierà ulteriormente. Se voi poteste vedere lo spettacolo fra un anno ne trovereste un altro. Un esperimento anche nel teatro questo, quindi capisco quello che dice Alessandro, perché questo non è l’aspettativa del teatro che probabilmente aveva Alessandro, il nostro è un altro esperimento: non è nuovo, il teatro greco spesso faceva così, mutava a seconda delle persone che aveva davanti. Quindi noi fra un anno, ma non solo, fra quattro mesi, fra tre mesi, molto probabilmente la prossima replica sarà ancora, no, la prossima no perché è uguale, perché siamo a San Severo, ma fra un mese sarà ancora diversa. Il perché non c’è un finale è una scelta, perché, noi, il nostro finale sono le domande e non vogliamo dare nessun giudizio, nessuna risposta. Il documentario di Pasolini ha un altro taglio rispetto a quello che noi vogliamo fare: il documentario che noi faremo (perché noi faremo un documentario fra un anno con tutte le interviste le domande che avremo fatto, ecc.), vedremo che taglio debba avere: non è detto che abbia la stessa e identica dolcezza di Pasolini e neanche la nostra tensione, magari ha un’altra cosa ancora. L’unica cosa che mi sembra interessante dire è che il nostro concetto di teatro, che può piacere o meno, è di un teatro vivente, quindi vuol dire che noi oggi sappiamo quello che è successo, domani anche, fra un mese no, stiamo già pensando di mettere dei pezzi, toglierne altri, soprattutto sulla prostituzione, perché c’è stato un grosso dibattito. Crediamo che sia un progetto di questo genere. Quindi se la domanda, per non rispondere a quello che dice giustamente Alessandro, che ha una sua opinione, e perché non il finale, perché noi abbiamo scelto di non avere il finale, né di Pasolini, né il nostro.

Alessandro: Dico che facendo così rischiate che questa opera sia inutile, perché Pasolini volutamente ha bisogno, lo dichiara, di un appoggio intellettuale, infatti interpella Musatti e Moravia e lui conclude. Rischia di essere inutile, perché, senza la mediazione intellettuale che non è il giudizio diciamo morale, ma è il giudizio sociale, sociologico, rischiate di non lasciare un documento, rischiate comunque alla fine di non lasciare testimonianza e traccia, ma di lasciare una cosa a metà.

Antonio: In realtà no, ripeto, il lavoro di teatro, l’inchiesta che stiamo facendo, gira in l’Italia, ha intanto il senso di nutrirsi di quello che sente e vede (si nutrirà anche delle tue opinioni), ma ha intenzione di lasciare un documento, nel 2013 perché siamo, al 50esimo anniversario di quando Pier Paolo Pasolini fece Comizi d’amore. Ora ti rispondo come intellettuale: (questa è la risposta registica teatrale): la risposta da persona, da intellettuale fuori di qua: non credo assolutamente che noi dobbiamo dare delle risposte, non così didascaliche. Le persone che usciranno da qua avranno le loro risposte, anche in questa loro piccola tappa, che non è completa, perché è completa fra un anno. Questa è la mia opinione però, che naturalmente è un’opinione personale, e non è un giusto o sbagliato. Sull’inutilità di questa operazione, lascerei naturalmente che vi esprimeste voi e non posso contestare: quando un attore si mette in scena, si spoglia nudo e dice: “giudicatemi”. Quindi il vostro Giudizio è assolutamente principe e sempre giusto.

Alessandro: Per evitare un fraintendimento, non intendevo risposte, nel senso alle domande precise che avete fatto, ma intendevo un giudizio su…

Antonio: Io ho inteso benissimo. Io ho inteso bene, però anche su quello non sono d’accordo come intellettuale; come teatrante dico che il giudizio è vostro, non è mio, io il mio l’ho fatto, come dire? Quando un cuoco cucina, fa una bella pietanza, la dà al tavolo e poi chi mangia giudicherà quel piatto e ha sempre ragione chi mangia non chi fa il piatto, come teatrante. Come intellettuale non concordo sul giudizio, perché credo che il ruolo debba essere un altro e che in realtà un giudizio, debba arrivare a chi è dall’altra parte, però questo è un fatto personale.

Alessandro: Però lei non sta dicendo che non è d’accordo con me, ma sta dicendo che non è d’accordo con Pasolini, che lei ha ripreso.

Antonio: No, no, non credo di dire questo, però vabbe’…è un’opinione e rispetto la sua, assolutamente.

Celeste: Io vorrei porre una domanda sulla scelta del costume di scena: perché il nero, perché scalzi?

Antonio: Il nostro era un tentativo di eliminare qualunque, anche i capelli, di mettersi abbastanza al servizio di questi cambiamenti, dove potessimo risultare meno personaggi possibile: una sorta di neutralità che non esiste, è un’illusione assolutamente, una convenzione. Quindi chiediamo al pubblico di accettare la convenzione del fatto che non siamo personaggi: questa è anche una nostra poetica ed evoluzione in questi anni: noi stessi non crediamo molto nei personaggi: se voi vedete gli altri lavori del “Teatro delle Forme”, non ci sono più personaggi, non esistono più, esistono relazioni, ma non sono più personaggi: quindi il costume riflette un po’ una poetica che il Teatro delle Forme sta un po’ portando avanti, sull’assenza del personaggio in scena.

Francesca: Io volevo fare una domanda per quanto riguarda una scena dal punto di vista attoriale: c’è stato un momento di interazione tra due attori, nel momento in cui le luci sono cambiate e sono diventate blu e con quella musica di sottofondo avete fatto quei movimenti…ecco io vorrei un po’ sapere se è una metafora del rapporto tra uomo e donna e nella relazione…Ho notato a un certo punto, quando vi siete bloccati al centro che fosse come una similitudine: l’uomo o la donna oggetto, l’utilizzo dal punto di vista sessuale e poi il riuscire a trovare una relazione che andasse oltre. Ecco, era questo il senso?

Antonio: A noi va benissimo quello che hai trovato tu. Nel senso che il nostro senso era molto semplicemente l’impossibilità di incontrarsi, la difficoltà di incontrarsi e che forse poi dopo, se avete notato, il video dopo, Amanda, quella ragazza che poi si è uccisa malamente (non se avete seguito il caso!); perché lei si è ammazzata, bevendo un litro di candeggina. E lei, se avete visto, tirava i suoi foglietti, ha indugiato per un secondo in più su un solo foglietto, che era il penultimo, con su scritto “sono sola ho bisogno di qualcuno”. E ci siamo permessi di riproporre quel video, perché la madre ha deciso di lasciare su Youtube a monito, come scuola, come insegnamento. Perché spesso utilizziamo questi mezzi, interessanti, bellissimi, ce l’ho anche io, fondamentali, ma che bisogna saper usare, perché sono rischiosi. Noi abbiamo avuto una di queste discussioni a Torino, una signora che è venuta abbastanza in lacrime, perché sua figlia non può più entrare su Facebook, perché non so cosa abbia sbagliato, se abbia messo una fotografia sbagliata, detto qualcosa…comunque appena entra, l’ammazzano di parolacce. Quindi sono strumenti difficile. La scena a cui lei si riferisce è proprio, per noi era un tentativo di dire è difficile incontrarsi, difficile parlarsi, difficile…abbiamo tanti amici su Facebook, tante relazioni eppure non riusciamo a incontrarci. Quello che poi lei ha provato è un’evoluzione ancora ulteriore che è assolutamente bella.

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