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resistenze0129° CONFRONTO POST-SPETTACOLO 

con Barbara Cerrato e Maria Macri
su “Peppino mani dell’Angelo” di Michele Pagano
presentato da “Officina Teatro” di Caserta
                                  interpretato da Barbara Cerrato                                       e diretto da Michele Pagano

” “Quando lo spirito non collabora con le mani non c’è arte”, sostiene Leonardo Da Vinci. Le mani di Mimma avevano qualcosa di diverso. L’avevano capito i tanti che si affollavano ai vetri della finestra per osservarla. Tutta quella gente non si era mai vista. I bambini erano sempre più numerosi, accorrevano le donne che uscivano solo la domenica per andare a messa, processioni da pesi lontani. Per tutti era “miracolata”, per pochi è rimasto Peppino, Peppino mani dell’angelo. ”                      (dalla presentazione dell’autore) 

Maria: il testo è di Michele Pagano, il direttore artistico di Officina Teatro messo in scena sette anni fa per la prima volta, poi rimesso in scena, riallestito con Barbara dopo circa un anno di prova, per cercare di rendere meno difficili per il pubblico determinati argomenti trattati.

Barbara: prima dell’inizio dello spettacolo sapevo che c’erano giovani nel pubblico ed eravamo un po’ spaventate, però è andata bene. Se a loro è piaciuto penso sia una delle più grandi soddisfazioni.

Claudia: vorrei sapere qualcosa di più riguardo alla genesi di questo spettacolo, cioè come è nata l’idea.

Barbara: l’idea è nata come diceva Maria, sette anni fa e Michele Pagano il nostro direttore artistico ha scritto questo testo ed è stato messo in scena tempo fa. La messa in scena era totalmente diversa da questa! Io ho iniziato le prove, ho letto il testo e lo spettacolo è cresciuto insieme alle prove. Solitamente facciamo così: c’è di base un testo, dopodiché lo spettacolo cresce con le prove. Ho fatto uno studio molto approfondito su Peppino. All’inizio è stato un po’ difficile perché cercavo un barbiere per entrare nella testa di Peppino. A Caserta sono andata un po’ a chiedere in giro, e all’inizio erano un po’ sconvolti: vedere entrare una ragazza e chiedere di fare la barba! E un paio di loro mi ha detto “ma mi stai prendendo in giro?” Mi hanno mandato a quel paese. Dopodiché ho trovato gentilmente questo signore che mi ha seguita, mi ha insegnato a fare la barba, è venuto lui da me, sono andata io da lui al negozio, ho imparato e adesso so fare anche la barba. Infatti dico sempre: male che vada almeno faccio le barbe, mi apro un negozio di barbe. (ride)

Claudia: quindi è un personaggio fittizio?

Barbara: è frutto dell’immaginazione del nostro direttore artistico.

Barbara: dobbiamo tornare a casa, siamo di Caserta, ci mettiamo un po’. Tra l’altro oggi abbiamo trovato anche neve in strada, ghiaccio. Prima facciamo meglio è! Scusateci. Grazie.

 

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Da questo mese e fino a febbraio 2013 seguiremo la stagione teatrale RESISTENZE012, giunta al terzo anno ed organizzata dal Teatro delle Moliche di Corato (Ba).

Particolarità di questa lodevole iniziativa è la possibilità di confronto diretto che gli artisti avranno con il pubblico presente alle esibizioni. Confronto che in questa, come nelle precedenti rassegne, viene raccolto e registrato da noi di PierrotWeb. Ogni anno dei confronti ne viene fatto un piccolo libricino, agile e caratteristico nella consultazione, poiché ritrae, fermandolo su carta, il pensiero degli artisti e quello del pubblico.

Quest’anno abbiamo deciso di offrirci una ulteriore possibilità di confronto, riportando per ogni spettacolo, un breve riassunto e le parole degli spettatori e degli artisti, sperando che il “confronto” si possa animare anche sulle pagine di questo blog.

Danilo Macina

CONFRONTO POST SPETTACOLO con Pierluigi Tortora
su “GIUSEPPINA, UNA DONNA DEL SUD
a cura de LA BOTTEGA DEL TEATRO di Caserta
di Pierluigi Tortora
interpretato e diretto da Pierluigi Tortora

“Giuseppina è una donna del Sud, che ha vissuto circa un secolo, il ‘900. Una donna forte e debole, umile e orgogliosa, madre e moglie, che appartiene alla sua terra, difficile e affascinante. Una storia di racconti del passato e di ricordi mentre intorno il mondo cambia: il suo rapporto con il progresso, con gli uomini è contrastato, un microcosmo, quello raccontato da Giuseppina, che diventa macro perché le storie somigliano e riguardano tutte le donne e tutti gli uomini che come lei, stupiti ed innamorati della vita, ne hanno smarrito l’orizzonte.” (Dalla presentazione dell’autore)                                                                     

Pieriluigi:  Prima di tutto voglio dirvi che questo “Giuseppina”, è uno spettacolo che ho scritto io assieme a Matteo De Simone, che è un autore di Roma, dedicato ad una donna che ripercorre tutto un secolo: lei nasce nel 1905 e muore quasi alla fine del secolo; e, come dice, vede il mondo cambiare. Nella fattispecie questa donna è stata la mia nonna. Se io so fare qualcosa nel narrare, la vera istruttrice, la vera maestra di questa narrazione è stata lei.

Michelangelo: ha risposto alla mia domanda, ovvero: il personaggio, a chi fosse ispirato; se fosse reale ecc…quindi ho capito che è sua nonna. A questo punto le faccio un’altra domanda. Chiedo: ha sentito una necessità storica a dover rappresentare un personaggio che ripercorre un secolo intero e presentabile in questo momento particolare? Oppure è stata una scelta che è derivata da altri motivi?

Pierluigi: Guarda, questo è una spettacolo che ha due anni e, diciamo, in due anni è già da record averlo fatto un’ottantina, novantina di volte. È nato per questa grande voglia di raccontare, di raccontare la vita di quelli che, altrimenti, la vita non li considera proprio. Nel senso, parafrasando una canzone di Eduardo De Crescenzo, non so se conoscete…scrisse una canzone che si chiama “Uomini semplici” che sono quelli che poi non si vedono, non hanno quella visibilità. Io sono molto molto vicino a queste situazioni quà, a queste persone quà. Ripeto nella fattispecie questa donna era mia nonna, ma era una delle tante donne del Sud, molto impegnate in questa vita fatta di dedizione assoluta alla famiglia, alle persone vicine, ma io che l’ho conosciuta, e anche altre persone, ripeto, anche fatta di una generosità spicciola, di tutti i giorni, di una grande intelligenza, di una grande sintesi. Sì, ho sentito l’esigenza di raccontare mia nonna, ma ho sentito anche l’esigenza di ritornare a raccontare semplicemte, come quando uno sta davanti a un camino e in una sera magari di freddo ti riesce a parlare e non parlarti addosso, perché oggi ci si parla addosso.

Michelangelo: di esperienze come queste sono capitate a tutti quanti. Penso che un po’ ognuno di noi abbia una nonna che racconta storie del genere e questo ci accomuna, penso, e anche se in un certo senso rende il raccontare queste storie un riflesso di quello che ci capita la domenica magari; quindi direi che è stato importante per lei e un riviverlo per noi questo tipo di racconto. È giusto?

Pierluigi: sì, io sono, ripeto, sono felicissimo ogni volta che faccio questa narrazione. Intanto perché faccio il teatro e facciamo il teatro assieme e, due, perché appunto mi riporta in qualche modo, non soltatnto a questa figura, ma mi riporta una voglia di un modo di vivere di cui assolutamente ne sento il bisogno. E quindi c’è questa grande partecipazione, oltre che dell’ “attore”, cioè questa partecipazione umana , prorpio a un modo di intendere la vita.

Michelangelo: quindi è questo che, penso, dovremmo imparare dalle storie di sua nonna?

Pierluigi: io, no, non ho questa pretesa…

Michelangelo: lei vuole solo raccontare…

Pierluigi: sì, io voglio solo raccontare, non ho questa pretesa. Sono felice se, se nel caso, per esempio nella fattispecie con te che sei giovane magari, ho colto nel segno, ho colto nel cuore, ho colto nell’emozione; sono felice, ripeto, doppiamente, come attore per quello che ho raccontato insomma. Sì, sì perchè spesso i racconti di oggi al di là del valore drammaturgico sono dei raccontri “trash”, molto molto grezzi, di poesia ce n’è poca. Ecco io credo che bisogna ritornare molto, ma non per essere in qualche modo, sai, così, gentili di maschera, ma essere veri.

Annamaria: devo fare veramente i complimenti perché ha colto le cose più piccole ma più importanti della vita, forse, di un tempo. Ad esempio quella storia che ha raccontato di suo nonno che portava le paste all’onomastico, cose che ormai oggi…Vorrei tanto che i giovani prendessero spunto da questo racconto che lei ha fatto di sua nonna e capire che le piccole cose sono tanto tanto importanti. Forse quando si diventa vecchi, si ricordano più le piccole cose che ti hanno fatto felice che le grandi cose. E purtroppo oggi i giovani aspirano alle grandi cose. Invece bisogna ormai capire che coi tempi di oggi, con la crisi che abbiamo, bisogna accontentarsi delle piccole cose e le piccole cose sono forse quelle più importanti e le si dà poco valore.

Pierluigi: io ringrazio di questa cosa che ha detto, ma aggiungo questo: che non è tanto nella indole intima, interna di crescita, quanto invece nell’idea che si è data in questo Paese, soprattutto negli ultimi venti anni, dove per esempio una persona ha distrutto la cosa più bella della vita, l’ha proprio sfaldata: l’amore. Ha fatto capire che anche quello si poteva comprare.  Io mi auguro che i ragazzi, soprattutto, vivano tutte le loro esperienze veramente da quella più piccola poi anche a quella più grande. Alla massima aspirazione, al pensiero della grandiosità, perché no? Però è chiaro che il pensiero della grandiosità, parte dal pensiero del piccolo. Cioè l’alfabeto va da a alla z.

Alessandro: lo spettacolo che hai presentato questa sera mi ha colpito particolarmente per diversi motivi. Il fatto è che io penso che sia uno spettacolo veramente carico di significati, di importanza non solo artistica, teatrale, ma anche, penso, storica, antropologica. Innanzi tutto mi ha colpito molto la lingua. Proporre uno spettacolo, oggi, in dialetto casertano in questo modo, secondo me è una scelta forte; a me è sembrata quasi una protesta che, non può avere realizzazioni nei confronti dell’attualità. Vedere un attore da solo senza niente, con un solo sgabello e avere come unico strumento il dialetto è una forma di resisteza fortissima, per quello che sta morendo, o si sta volgarizzando e sta perdendo di senso. Per me è stato molto bello sentire il dialetto, in tutto lo spettacolo, così: la sua vitalità, la sua freschezza, la sua storia. Altra cosa che mi ha colpito è, insieme a questo, la semplicità dello spettacolo, l’essenzialità: non ti sei neanche alzato in piedi, come se tutto è nella parola detta in dialetto. Perchè non è lo spettacolo in vernacolo, comico, ridicolo, ma è invece una reminiscenza, un riproporre un passato che noi non conosciamo più. Quando dico noi, parlo specialemte della mia generazione, cioè quella dei 20/30, io ho 21 anni. Ecco, una storia come questa raccontata in questo modo ci è lontana anni luce, è come se un extraterrestre fosse venuto a parlarci del suo pianeta e delle sue storie. Io penso che il modo con cui noi recepiamo questa storia sia come recepire una favola o una fiaba. La realtà di cui si parla, le storie, i sentimenti, la religiosità, la maternità, il senso di ubbidienza, sono cose che noi proprio non conosciamo bene, a cui non siamo stati educati, che non ci sono state tramandate. Io stesso quando ascolto mio nonno, mio nonno calabrese di montagna, stare ad ascoltare le sue storie, i suoi aneddoti è difficile; c’è proprio una distanza insormontabile. E allora io sono contento di vedere questo spettacolo, di avere l’occasione di vedere un attimo cosa c’era prima.

Pierluigi: questa cosa che dici è importante, perché, tra l’altro, se tu l’hai così bene recepito, è segno che comunque c’è una radice positiva, non per il fatto che tu abbia recepito questo spettacolo, ma perché ti ha riaperto la mente verso un mondo che non hai conosciuto e di cui ce n’è bisogno; sai come si dice, insomma, voglio dire: non c’è futuro senza presente, né passato. E quindi noi dobbiamo tenere presenti le radici. Io anche nella parte della domanda che hai riferito, al non essere lo spettacolo in qualche modo ridicolo, ridanciano, piacione: sì è proprio così, è l’essenza, è un racconto, lei raccontava esattamente così, e se era efficace, lei, che non era un’attrice, ma era un’attrice della vita, proprio perché aveva fatto la sintesi e alla fine…bhè poi andiamo più in un discorso tecnico… Io per lo meno ho un’idea di teatro che è più a togliere che a mettere, i colori, in teatro, mettere gesti, movimenti , poi naturalmente ci sono delle situazioni dei personaggi che si prestano a questo. Però voglio dire è un teatro, questo, della verità. E queste sono storie della verità. Tante volte sono anche storie incomprensibili, come magari ti racconta il tuo nonno. Però poi dopo con un attimo di riflessione, con un attimo di fermo immagine dici: forse voleva dire questo, forse dire quell’altro. Il problema oggi sai qual è, Alessandro? È la velocità: noi ci lasciamo scorrere tutto addosso e non ci fermiamo mai, non ci fermiamo manco più a guardare il cielo, insomma, per cui è tutto molto veloce.

Simonetta: ho vissuto questo spettacolo con una partecipazione emotiva molto forte, perché ancor prima di sapere a chi fosse ispirato, dedicato questo spettacolo, io ho subito pensato a mia nonna. Però, io ho vissuto al nord e in questo spettacolo per quanto fosse incisivo l’uso del dialetto, spesso io ho avuto molta difficoltà a comprendere. Quindi, mi chiedo: perché questi valori, queste tradizioni non possono alla fine essere comunicate a tutti? Quindi: non credi che il dialetto, per quanto incisivo, non possa, in un certo senso, essere un ostacolo alla comunicazione o comunque a trasportare questi valori molto importatanti dovunque?

Pierluigi: no. Sarebbe snaturare tutto, perché è un lavoro di radice ed è un lavoro di radice del sud, non solo di radice mia, della mia terra. Io credo che il nostro Paese, fondamentalmente, abbia questa divisione nord sud, divisione naturale. Credo molto fortemente che la gente del sud sia gente buona, tosta, intelligente, capace, volitiva, e quindi, per tornare seccamente alla tua domanda: se io avessi fatto questo cambio di dialetto verso la lingua italiana, in qualche modo una lingua più comprensibile, non avrei fatto un buon servizio a voi come spettatori e a me come attore e al teatro anche. Perché in teatro, vedi, non sempre si deve capire tutto. Uno se ne può andare anche di emozioni, una parola può anche sfuggire, l’emozione no. Questo è il mio pensiero. Volevo ringraziare Giancarlo che mi ha fatto il tecnico, il mio amico Giancarlo. É una maschera del vecchio cinema di Caserta che non c’è più e adesso è venuto con me questa sera.

Lavinia: volevo fare una semplice osservazione. Io sono rimasta molto colpita da un tema che hai affrontato che è quello della solitudine, che non è isolamento. Una zia di mio padre che poi ho rivisto nel personaggio di tua nonna, io ricordo sempre che, innanzi tutto, mi accoglieva con una carezza e anche se magari non mi chiedeva  di raccontare me, però nel momento in cui raccontava se stessa è come se ti desse delle piccole…dei piccoli consigli, dei piccoli tesori, delle picole lezioni di vita. Anche se sta parlando di lei stessa. Erano dei piccoli doni: il raccontarsi, il narrare è proprio un gesto d’amore.

Pierluigi: la generosità di queste persone qua, e anche la tenacia. La generosità di queste persone è testimoninata appunto in piccoli gesti: mia nonna tutte le sere ci portava delle caramelle di liquirizia, fatte a forma di barchetta e noi le dicevamo “ ‘a no’ hai purtato ‘i barcatell’” . E per venire a trovare questo figlio alla bottega di sartoria lei faceva qualcosa come, ci veniva 4 volte al giorno come dice, e faceva qualcosa come, all’età di 70 e passa anni, 5 chilometri al giorno a piedi, andare e venire, andare e venire, andare e venire….

Lavinia: io penso che più la vita è piena, più è leggera, ma non nel senso superficiale, mentre qua, più la vita è vuota, più la persona tende a raccontare depressione…

Pierluigi: io sono d’accordo, cioè non pigliarsi troppo sul serio non significa non impegnarsi, significa essere leggeri e di leggerezza ne abbiamo veramente tanto tanto bisogno tutti quanti, anche nei fatti seri. Alla fine il nostro è un passaggio.

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